“L’occupazione sta cercando di sradicarci. L’arte può riportarci al posto che ci spetta”

Dic 11, 2021 | Notizie

di Suha Arraf

+972 Magazine, 1 dicembre 2021. 

La cantastorie palestinese Fidaa Ataya usa l’arte come mezzo per resistere ai coloni e ai militari israeliani che si sono impossessati del paesaggio della sua infanzia.

Fida’a Ataya (per gentile concessione)

Fidaa Ataya, un’artista di un villaggio fuori Ramallah nella Cisgiordania occupata, è una hakawatia (una cantastorie) che conosce bene i pericoli che si corrono nel tentativo di fare arte sotto l’occupazione. I coloni l’hanno attaccata, hanno sfasciato la sua attrezzatura e distrutto ciò che ha cercato di costruire sulla collina di Kafr Ni’ma, dove è nata nel 1987, durante la Prima Intifada.

Ma Ataya non si arrende. Per la fine del mese sta organizzando un festival chiamato Al-Haya Al-Mahdoura (Vita Proibita), con artisti dalla Palestina e dall’estero. “Voglio riportare in vita la zona”, dice. “L’occupazione israeliana sta cercando di spezzare la nostra connessione intima con la terra e sradicarci. L’arte può riportarci al posto che ci spetta.”

Quando era una bambina, Ataya frequentava la collina che sovrasta Kafr Ni’ma, che si estende nelle aree B e C della Cisgiordania (rispettivamente sotto controllo israeliano parziale e completo), e che a sua volta è circondata da altre colline. Ora, Ataya ha trasformato la sua arte in un mezzo per resistere ai militari e ai coloni che hanno preso il controllo di quella montagna.

‘La cima del mondo’

Dopo aver studiato psicologia culturale a Ramallah e teatro a Jarash, in Giordania, Ataya ha studiato teatro in Libano. Nel 2018 si è trasferita negli Stati Uniti, dove ha conseguito un’altra laurea in arte comunitaria. Alla fine del 2020, però, la pandemia di coronavirus l’ha costretta a tornare dagli Stati Uniti a Kafr Ni’ma.

Anche prima di andare a studiare all’estero, uno degli hobby di Ataya era fare escursioni giornaliere sulle colline intorno al suo villaggio. La collina di Al-Rusan, che fa parte della terra di Kafr Ni’ma, era uno dei suoi luoghi preferiti e, sin da quando era bambina, saliva fino alla cima e si sedeva lì sotto un grande albero.

“Per me quella era la cima del mondo”, ricorda Ataya, “mi sentivo come se fossi al centro del mondo, circondata dalle nuvole, il cielo che si estendeva all’orizzonte senza nulla che ne limitasse la vista, come se fossi contemporaneamente all’inizio e alla fine della terra.

Fida’a Ataya (per gentile concessione)

 “Devo viaggiare molto per lavoro e ho visto molta natura, ma per me questo è il posto più bello del mondo. È qui che inizia la vita».

Un colono in cima alla collina di Al-Rusan

Prima di andare negli Stati Uniti, Ataya ha invitato i colleghi del Canada, del Regno Unito e degli Stati Uniti a venire a vedere le sue colline. Ci salirono e vagarono tra le rovine di un antico villaggio, probabilmente dell’epoca dell’impero bizantino. Trovarono grotte, fossili e frammenti di ceramica. Uno dei suoi amici fotografò il sito e decisero che il loro prossimo progetto artistico sarebbe stato su Al-Rusan Hill.

Quando è tornata dagli Stati Uniti nel 2020, Ataya ha dovuto fare la quarantena a causa della pandemia. “Abbiamo una piccola casa vicino alla collina”, dice Ataya. “Mi sono isolata lì e i miei genitori mi hanno portato il cibo”. Una mattina uscì a fare un’escursione verso la collina, come era stata sua abitudine. “Ho visto che c’era un recinto di filo spinato”, dice, “e ho continuato a camminare. Ho visto un cancello e un’auto entrare. Sono entrata proprio dietro l’auto.

Le è stato detto che un colono israeliano aveva preso il controllo della collina. “Sono andata su per la collina e infatti ho visto un colono che stava lì in una casa mobile”, ricorda Ataya. “Tutti dicevano che probabilmente se ne sarebbe andato”. Nel villaggio ha sentito che quello stesso colono aveva pavimentato una strada dal vicino villaggio di Ras Karkar fino alla cima della collina e ci aveva piazzato una casa mobile nonostante le proteste dei residenti palestinesi.

“Quando sono arrivata [nel villaggio] c’era una manifestazione”, spiega Ataya. “Non ho partecipato alla manifestazione, ho solo continuato su per la collina. I soldati mi hanno fermato lungo la strada, mi hanno minacciato con le armi e mi hanno chiesto cosa stessi facendo lì e dove stessi andando. Hanno detto che era una zona militare chiusa e che non mi avrebbero lasciato salire sulla collina”.

“Un colono mi ha visto e mi ha chiesto di dove ero. Ho risposto che sono una italo-palestinese. Sono entrata nella zona. Ho visto qualcuno che dava da mangiare alle pecore. [I coloni] avevano trasformato la collina in un insediamento. C’erano diverse case mobili, una casa in legno e grandi stalle dove allevavano animali: cavalli, capre, pecore. Ho visto una donna che usciva di casa. Ho provato a parlare con lei, ma mi ha ignorato.

“Ho continuato a camminare verso l’albero dove mi sedevo. Avevano cambiato tutto. Del villaggio bizantino non è rimasta traccia. Qualcuno si è avvicinato e ha cominciato a interrogarmi. Gli ho parlato in inglese. Era armato. Era il capo dell’insediamento in cima alla collina.

“Capiva a malapena quello che stavo dicendo, così ha chiamato qualcuno per tradurre. Mi ha chiesto di parlare arabo. Ho risposto che il mio arabo non è abbastanza buono e temevo di potermi confondere. Mi ha chiesto perché fossi venuta lì, e io ho risposto che volevo continuare il progetto artistico che avevo iniziato proprio in quel posto. Mi ha chiesto da dove venivo in Palestina. Ho indicato Modi’in e gli ho detto che mia nonna era di lì, era diventata una rifugiata ed era venuta a vivere a Kafr Ni’ma.

Fida’a Ataya (per gentile concessione)

“Avevo appena finito la frase che mi ha dato un pugno in faccia, ha imprecato contro di me e mi ha chiesto: ‘Parla arabo’. Ho continuato a parlare inglese imperturbabile. Ha iniziato a insultarmi e poi mi ha preso a pugni di nuovo. Ho detto: “Non picchiarmi, ti sto parlando gentilmente”.

“Ha iniziato a urlare. La donna che avevo visto fuori, che doveva essere sua moglie, ha cominciato a urlargli di smetterla. Mi è caduto il velo che avevo in testa. L’ha preso e l’ha usato per bendarmi. Mi hanno urlato contro, mi hanno messo su un veicolo e mi hanno consegnato all’esercito.

“Quelli dell’esercito mi hanno chiesto la carta d’identità. Ho detto loro che non avevo con me la carta d’identità o il telefono perché ero in quarantena. Ho dato loro il numero del mio telefono, il soldato l’ha controllato e mi ha detto di andare a casa. Mi ha chiesto come fossi arrivata lì, e gli ho detto che avevo fatto escursioni in quel posto per tutta la vita. Gli ho chiesto cosa stessero facendo loro lì.

“Il militare mi ha detto che da quel giorno non era più consentito fare escursioni sulla collina perché era diventata zona militare chiusa. Gli ho chiesto cosa fosse cambiato e lui ha risposto: ‘Tutto è cambiato, chiedi agli abitanti del villaggio.’”

“C’è speranza nell’arte”

La pandemia è stata molto difficile per Ataya. Sia suo fratello che suo padre sono morti di COVID-19 nel 2021. Ma lei non si è arresa. Quando la sua quarantena è finita, è andata alla polizia per lamentarsi della violenza dei coloni.

Nemmeno il divieto di andare sulla collina l’ha fermata. Ha continuato a cercare nuovi siti nella zona per creare arte. “Ho capito che dovevo tornare all’arte, perché nell’arte c’è speranza”, dice. Ha iniziato un progetto sul fiume Giordano con colleghi di altre nazioni e artisti palestinesi. “L’idea era di fare un’escursione sul fiume Giordano per vedere la splendida vista, la bellezza che era scomparsa dalle nostre vite. L’idea era che la gente si innamorasse di nuovo di quel posto e recuperasse la speranza”.

Ataya ha messo insieme cartelli stradali fatti a mano da posizionare lungo il percorso dell’escursione, ma l’esercito l’ha attaccata. “I soldati hanno rovinato il mio progetto, hanno arrestato sei artisti e hanno confiscato una delle loro auto. Qualcuno ha distrutto tutti i cartelli che avevamo messo”, spiega.

Allo stesso tempo, ha organizzato un progetto sul territorio del villaggio, tra Ein Al-Hilweh e Wadi Al-Maliha (Fonte d’acqua dolce e Wadi salato). “Per me è un miracolo che l’acqua salata e l’acqua dolce si incontrino”.

Ataya si è ritrovata ancora una volta circondata da violenza e devastazione, quando sia i coloni che l’esercito hanno distrutto le sue opere d’arte – non si sa se siano stati i coloni o l’esercito. Si è rivolta alla polizia israeliana, ha sporto denuncia e ha continuato a cercare uno spazio per nuovi progetti.

“Ho cercato di accedere alla nostra terra per piantare alberi e non mi ci hanno nemmeno lasciato entrare”, dice Ataya. “Ho provato ad andare in giro per la zona con i miei amici stranieri per continuare con il nostro progetto artistico, ma il colono mi ha fermato. Si è ricordato di me, mi ha chiesto cosa volevo da lui e perché andavo a casa sua.

“Ho risposto che volevo continuare il progetto artistico che avevo iniziato lì, e lui ha detto: ‘No, tu vuoi una guerra’. Ho risposto che non voglio una guerra, e io e le donne che erano con me abbiamo continuato a camminare verso il luogo prescelto. Ho piantato alberi al posto di quelli che avevano sradicato. Ho realizzato una biblioteca per bambini e una piccola sala costumi. Ho sistemato un parasole e una grande bambola e ho fatto un cartello con la scritta “Art Studio”.

“Ero in studio a scattare fotografie. Un colono è venuto da me e ha iniziato a fotografare me e il mio studio. Gli ho chiesto di andarsene. Quando stavo tornando a casa, il colono è tornato su una moto con l’esercito al seguito e ha iniziato a chiedermi dove stavo andando. Il capo dell’insediamento è arrivato e allora ho detto all’esercito che era stato lui a colpirmi”.

Il fratello di Ataya è arrivato sulla scena, ha parlato con i soldati in ebraico ed è stato in grado di liberarla. “Tre giorni dopo sono tornata nel mio studio”, ricorda. “Non c’era più niente. Hanno rubato tutto. Hanno anche sradicato gli alberi. Hanno preso anche il cartello. Sono andata direttamente alla polizia e ho sporto denuncia, e poi sono andata all’organizzazione [israeliana per i diritti umani] Yesh Din. Ho già presentato alla polizia quattro denunce contro i coloni”.

‘Fidaa è un simbolo della lotta’

Le opere di Ataya sono state esposte in festival di tutto il mondo: Italia, Stati Uniti, Spagna, Danimarca, Svezia, Francia e altri. “Io racconto storie. A volte sono storie vere sulle mie esperienze o storie che altre persone mi hanno raccontato, e a volte sono racconti popolari palestinesi. Ne spiego il significato e li collego alla nostra realtà attuale.

“La vita di villaggio mi ha dato un forte legame con la natura. La terra fa parte della vita per gli abitanti del villaggio. Organizzo festival e invito artisti dalla Palestina e dall’estero. Ogni volta scelgo un nuovo luogo in cui sento che c’è un conflitto. Ci sediamo, incontriamo la gente del posto, ascoltiamo le loro storie e veniamo fuori con un progetto artistico collaborativo, visivo o basato sulla storia, a seconda del luogo e delle storie”.

La tua arte è un atto di resistenza?

“Per me l’arte è un modo per aiutare le persone. Ho capito che non posso cambiare niente da sola. Voglio riportare in vita la zona. L’occupazione ci sta soffocando da ogni punto di vista”.

Il 30 ottobre si svolgerà il festival di Ataya, Forbidden Life, con artisti dalla Palestina e dall’estero. “Il mio piano è di organizzare tre grandi festival all’anno, non solo in Palestina. Voglio che l’arte sia parte della natura, non separata e disconnessa da essa. Questo è il mio modo di lavorare. Vado da qualche parte e inserisco la mia arte nelle persone, nei luoghi e nell’ambiente”.

Fidaa Ataya si esibisce per gli scolari palestinesi. (per gentile concessione)

Maysoon Badawi, una ricercatrice di Yesh Din, sta seguendo la violenza dei coloni e dei militari nell’area ed è la coordinatrice del lavoro della sua organizzazione sulle questioni di genere. Tiene anche seminari sull’emancipazione legale delle donne in Cisgiordania. “Fidaa è venuta da me”, dice Badawi, “ma non è mai riuscita a raggiungere la sua terra”.

“Per me Fidaa è un simbolo della nostra lotta. È andata da sola alla polizia tre volte per sporgere denuncia. Non è una cosa facile da fare”, afferma Badawi. “Lei non getta la spugna. Hanno sradicato i suoi alberi più volte, ma lei non si è arresa. È importante sporgere denuncia alla polizia. Questo non porrà fine all’occupazione, ma i coloni devono capire che qualcuno li tiene d’occhio”.

Suha Arraf  è una regista, sceneggiatrice e produttrice. Scrive sulla società araba, la cultura palestinese e il femminismo.

https://www.972mag.com/fidaa-ataya-art-occupation-resistance/

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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