La spirale di morte della politica estera americana

Dic 25, 2021 | Riflessioni

di Walter L. Hixson,  

CounterPunch, 23 dicembre 2021. 

Fonte della fotografia: Steve Jurvetson – CC BY 2.0

La politica estera americana è oggi in una mortale spirale reazionaria. Mai prima d’ora c’era stato un bisogno così disperato di un nuovo paradigma di politica di “sicurezza nazionale”, eppure non c’è nemmeno un barlume di salvezza all’orizzonte: ovunque guardi, trovi politiche che parlano al passato e offrono poche speranze per un futuro globale praticabile.

Il paradigma che irretisce la diplomazia americana si è cementato circa 75 anni fa con la seconda guerra mondiale e la guerra fredda. Quegli eventi catastrofici hanno forgiato uno stato permanente di sicurezza nazionale americana caratterizzato da un intervento globale illimitato, dalla coltivazione di un “complesso militare-industriale” in continua metastasi e da un’infinita e spesso razziale definizione del nemico come altro, seguita da guerre altamente distruttive ma alla fine perse, piene di devastanti contraccolpi sulla “patria” stessa.

Occorre urgentemente un nuovo paradigma di politica estera, fatto di internazionalismo cooperativo incentrato sulla lotta ai cambiamenti climatici, sul controllo della popolazione, il controllo delle malattie infettive, gli investimenti per affrontare efficacemente la povertà e le migrazioni globali, una drammatica smilitarizzazione, la rinuncia alle armi e al traffico di esseri umani. Gli Stati Uniti dovrebbero assumere la guida nel resuscitare e rafforzare le Nazioni Unite perché possano perseguire meglio la loro missione di promuovere la sicurezza globale, l’antirazzismo e i diritti umani universali.

Ti sembra una stupidaggine idealista liberale? Bene, allora ti piace ciò che ha prodotto la politica estera “realista”: una serie infinita di guerre che non finiscono mai, una risposta assolutamente insufficiente alla minaccia esistenziale del cambiamento climatico, la distruzione dilagante di specie animali e vegetali, la militarizzazione del pianeta in mezzo a povertà, malattie epidemiche e scarse prospettive di genuina sicurezza nazionale, e tanto meno internazionale.

Ancora in preda al paradigma della Guerra Fredda, l’amministrazione Biden è legata al confronto con la Cina e la Russia tanto quanto lo era Harry Truman, Dwight Eisenhower e ogni altra amministrazione dal 1945 a oggi. La pura arroganza al centro dell’identità nazionale americana, solitamente definita come l’eccezionalismo americano, non può sopportare l’esistenza di altre grandi potenze. Sì, è vero: l’acquisizione di Hong Kong da parte della Cina, i suoi sforzi per stabilire un’egemonia nel Mar Cinese Meridionale e il suo vergognoso record sui diritti umani, specialmente in Tibet e nello Xinjiang, sono tutte cose inquietanti. Nel lungo termine, un ONU rivitalizzato –che i realisti hanno a lungo ostacolato e condannato come un avamposto dell’idealismo universalista– potrebbe esercitare una pressione significativa sulla Cina riguardo ai diritti umani, ma in questo momento una cooperazione sui cambiamenti climatici è la priorità più importante.

L’unica sottile speranza della gestione diplomatica di Biden –che può essere attribuita a John Kerry piuttosto che all’arrancante Segretario di Stato Anthony Blinken– era quella di concordare con il leader cinese Xi Jinping di perseguire un’azione comune, seppur tiepida com’è stata fino a questo punto, sul cambiamento climatico. Non abbiamo altra scelta che lavorare con altre nazioni, in particolare Cina e India, e farlo immediatamente. C’è solo una visione chiara all’orizzonte globale, ed è l’onda di marea sempre crescente del cambiamento climatico, alimentata da decenni di dipendenza globale dal petrolio guidata dagli Stati Uniti, che era ancora un altro punto fermo del paradigma del dopoguerra.

La politica degli Stati Uniti sulla Russia è stata irrazionale fin dal 1945. A quel tempo una politica estera veramente “realistica” avrebbe riconosciuto, e deciso di mitigare, un’inevitabile espansione dell’influenza sovietica in considerazione dei sacrifici fatti dall’URSS nella guerra. Ben più di 50 sovietici morirono per ogni americano morto nel conflitto, per cui l’URSS meritava la parte del leone del merito, che ovviamente non ha mai ricevuto né da Washington né da Hollywood, per la sconfitta dei nazisti.

Invece di affrontare realisticamente la potenza sovietica, gli Stati Uniti hanno dichiarato e condotto una guerra santa ideologica, che ha prodotto incubi militarizzati in tutto il mondo e in particolare in Indocina. Dopo aver sbandierato infantilmente nel 1991 la “vittoria” nella Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno fatto l’unica cosa che gli esperti di Russia, in particolare George F. Kennan, avevano avvertito che avrebbe causato la continuazione della Guerra Fredda: hanno ampliato la NATO, un’alleanza militare ostile anti-russa, nell’Europa orientale e poi nelle ex repubbliche sovietiche.

Oggi, Vladimir Putin ha tracciato il confine nell’est dell’Ucraina, un luogo in cui vivono milioni di russi (in Crimea, sono una maggioranza di quasi due terzi che Putin si è già assicurata) e dove la lingua russa è ampiamente parlata. Invece di avere il realismo di riconoscere gli interessi nazionali russi lungo il confine occidentale –e cercare un terreno comune sul cambiamento climatico e magari un non intervento nelle altrui politiche interne– gli Stati Uniti stanno scegliendo il confronto, a rischio di una escalation di tipo militare.

Infine, la politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente nel dopoguerra, ancorata al sostegno ai regimi reazionari in tutta la regione –in particolare Egitto, Israele e Arabia Saudita– è stata un disastro assoluto, pieno di guerre eterne, orribili contraccolpi e instabilità perenne. L’unico “successo” nella regione è stato quello di mantenere il flusso del petrolio, che ha prodotto la crisi esistenziale che ora affrontiamo.

Ora, poiché l’amministrazione Biden si sta inchinando alla politica di Trump di silurare l’accordo nucleare iraniano del 2015, è emersa la possibilità di un’altra guerra in Medio Oriente prima ancora che la polvere si sia posata in Afghanistan. Israele, naturalmente, è l’unico paese del Medio Oriente che possiede effettivamente armi nucleari, armi che ha sviluppato negli anni ’60 sfidando l’accordo di non proliferazione nucleare (1968) guidato dagli Stati Uniti. Israele e la sua lobby –di gran lunga la più potente di qualsiasi nazione straniera nella storia americana– preferiscono la guerra alla diplomazia. Ecco allora che l’ex leader israeliano apertamente razzista Benjamin Netanyahu e ora il suo successore Naftali Bennett –che ama vantarsi del numero di arabi che ha ucciso– si sforzano senza sosta per ribaltare l’accordo del 2015 con l’Iran. L’accordo multilaterale è stato un eccellente pezzo di diplomazia che avrebbe mantenuto l’Iran privo di bombe in modo verificabile, in cambio di una riduzione delle sanzioni.

Israele, ora ampiamente e accuratamente riconosciuto come uno stato di apartheid, ha ogni intenzione di provocare una guerra con l’Iran, con l’assistenza della lobby guidata dall’AIPAC che controlla il Congresso degli Stati Uniti tanto quanto Putin controlla la Duma russa. [Il Segretario di Stato] Blinken, da sempre un devoto sionista, potrebbe anche accontentarli, trascinando con sé il sonnolento Joe [Biden], invece di resuscitare l’accordo nucleare.

Quello che è certo è che il Congresso continuerà a dare a Israele, un minuscolo paese di circa nove milioni di abitanti, più denaro di quanto non ne dia a qualsiasi altro paese e persino a interi continenti: 3,8 miliardi di dollari l’anno, per un totale di 146 miliardi dal 1948. Questo livello continuo e assurdo di assistenza militare ha reso Israele il colosso del Medio Oriente, il leader mondiale negli omicidi mirati, con una specializzazione nella guerra indiscriminata contro gli arabi, specialmente nella prigione della Striscia di Gaza, luogo di ripetuti crimini di guerra. Per decenni Israele si è fatto beffe del mitico “processo di pace”, visto che più di 700.000 “coloni” si sono insediati nei territori palestinesi illegalmente occupati. Israele è ora in procinto di conquistare Gerusalemme Est, che avrebbe dovuto essere la capitale di uno stato palestinese indipendente.

La politica estera degli Stati Uniti ha permesso e finanziato queste azioni dello Stato Ebraico, come Israele ha proclamato di essere nel 2018. La legge sullo Stato Ebraico ha ufficializzato l’apartheid, emarginando la popolazione araba di Israele, il 20 percento del totale, ed anche i palestinesi oppressi dei territori occupati.

Il summenzionato George Kennan una volta paragonò la politica estera degli Stati Uniti a un brontosauro, una grande bestia preistorica che seminava il caos con la sua potente coda che non veniva controllata dal suo cervello troppo piccolo. L’immagine non è mai stata più appropriata di oggi.

C’è un disperato bisogno di un nuovo paradigma di politica estera ma, come con la seconda guerra mondiale, sarà probabilmente necessario un cataclisma per ispirare il cambiamento tettonico richiesto. Nel frattempo, ci sarà un premio per chi riesce a sopravvivere .

Walter L. Hixson è l’autore di una miriade di studi sulla politica estera degli Stati Uniti, inclusi i più recenti Imperialism and War: The History Americans Need to Own e Architects of Repression: How Israel and its Lobby Put Racism, Violence, and Injustice at the Center of Middle East Policy, entrambi pubblicati nel 2021 dall’Institute for Research di Washington. Hixson ha insegnato storia americana a livello universitario per 36 anni, raggiungendo il grado di distinguished professor.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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