La devastazione spirituale dell’apartheid è il tema del diario di viaggio in Israele del New York Times che usa la parola ‘a’ solo una volta

Nov 5, 2021 | Riflessioni

di James North e Philip Weiss,  

Mondoweiss, 4 novembre 2021.   

Patrick Kingsley, corrispondente del NYT da Gerusalemme, in un’apparizione all’Università di Harvard nel 2015, quando si occupava di migrazione per il NYT. Schermata da Youtube.

La scorsa settimana il New York Times hapubblicato un importante articolo su Israele, un diario di viaggio di dieci giorni di Patrick Kingsley, che mostra quanto la società sia profondamente corrotta dall’apartheid. L’articolo, intitolato “La Terra Promessa di chi? Viaggio in un Israele diviso”, inizia con un kibbutznik di 86 anni che afferma che Israele non è “il bambino per cui abbiamo pregato” e indica il sito di un villaggio arabo che è stato spazzato via dalla creazione di Israele. Kingsley si sposta quindi a sud attraversando Israele e ascolta testimonianze inquietanti di discriminazione e disagio.

In un raffinato stile giornalistico, Kingsley mostra che l’apartheid è penetrato in ogni angolo della società israeliana: “Abbiamo trovato un paese ancora alle prese con contraddizioni lasciate irrisolte alla sua nascita, e con le conseguenze della sua occupazione…” Non c’è una voce interamente  pro-Israele nell’intero articolo, che è accompagnato dalle immagini malinconiche di Laetitia Vancon.

L’articolo è importante perché trasgredisce due divieti.

In primo luogo, come altri media statunitensi a grande diffusione, il New York Times ha fatto tutto il possibile per seppellire l’accusa di “apartheid” mossa contro Israele dai principali gruppi per i diritti umani all’inizio di quest’anno. Kingsley conosce la verità, e sebbene usi la parola ‘a’ una sola volta, riesce a portare di contrabbando quella realtà ai suoi lettori sotto forma di un racconto di viaggio.

In secondo luogo, Israele e la sua lobby sostengono che la questione palestinese si sta “restringendo”, specialmente dopo gli accordi di normalizzazione che Israele ha firmato con le monarchie arabe. I politici israeliani non hanno neanche discusso la questione palestinese nella recente serie di campagne elettorali.

Questo articolo chiarisce che il problema è esistenziale; Kingsley rivela un paese sfigurato dall’apartheid, con ansie che si insinuano in ogni livello della società.

Non sorprende che il gruppo di lobby pro-Israele CAMERA (Committee for Accuracy in Middle East Reporting in America) abbia risposto con rabbia, con un’insipida campagna su Twitter insistendo sul fatto che gli israeliani sono persone felici, non gli israeliani “tristi” di cui Kingsley sta parlando. E anche il Jerusalem Post sta insistendo disperatamente sulla storia di un Happy Israel.

L’articolo non riguarda gli israeliani “tristi”. È un ritratto magistrale di come la discriminazione si sia insinuata nella vita quotidiana di Israele. È ovunque e sembra danneggiare la società.

I malumori non sono dovuti solo alla discriminazione anti-palestinese. Uno degli intervistati di Kingsley parla accalorato di come alcuni ashkenaziti, o ebrei di origine europea, guardino dall’alto in basso gli ebrei i cui antenati provengono dal Medio Oriente, o mizrahim. “Tutti ci trattano come spazzatura”, dice una donna Mizrahi il cui figlio si è suicidato 30 anni fa, scrive Kingsley, “dopo che il padre della sua ragazza ashkenazita le ha proibito di uscire con un ragazzo Mizrahi”.

Kingsley si ferma nella città costiera di Haifa, spesso citata come esempio di convivenza ebraico-palestinese, e scopre che la città “rimane occupata allo stesso modo della Cisgiordania”. Poi prende “strade costruite sulle rovine di un quartiere arabo demolito dopo la guerra del 1948” per incontrare la poetessa palestinese Asmaa Azaiezeh:

Ogni volta che guida in città, i palazzi per uffici costruiti nel quartiere arabo distrutto accentuano il suo senso di alienazione, ricordandole che la maggior parte dei residenti arabi è fuggita dalla città nel 1948. “Mi dicono in faccia”, ha detto, “questo non è tuo.”

Solo una volta che gli ebrei israeliani riconosceranno che la sua città è occupata, ha detto, potrà iniziare una discussione significativa sul futuro. Lei spera che il futuro porti un unico stato per israeliani e palestinesi, con uguali diritti per tutti – un’idea che la maggior parte degli ebrei israeliani rifiuta perché significherebbe la fine di Israele come stato ebraico.

Kingsley poi fa visita a una scrittrice che vive in una colonia israeliana a Tekoa, nella Cisgiordania occupata, e ci fa capire quanto sia difficile viaggiare per i palestinesi.

I palestinesi possono passare intere ore ai posti di blocco in Cisgiordania, ma con la targa israeliana ci siamo accorti a malapena che eravamo entrati nel territorio.

La scrittrice, Daniella Levy, è a disagio per l’occupazione, ma dice a Kingsley che è tempo per i palestinesi di “andarsene”. Ovviamente Kingsley trova assurdo quel consiglio:

Per i palestinesi dall’altra parte della valle, alcuni dei quali abbiamo anche incontrato quel giorno, l’insediamento stesso è un ostacolo alla fiducia ed è l’esempio di un sistema legale a due livelli che essi assimilano all’apartheid. Tekoa è stata costruita negli anni ’70 e ’80, dopo che Israele aveva trasformato il sito in una zona militare chiusa, bloccando l’accesso ai palestinesi che, sebbene privi di un formale titolo di possesso della terra, l’hanno coltivata per generazioni.

I numerosi insediamenti mettono a dura prova “ogni possibilità di creare uno stato palestinese contiguo”, osserva Kingsley, un’altra verità che il New York Times ha cercato per anni di offuscare.

Kingsley incontra anche un rapper etiope che “è stato detenuto [dalla polizia] più volte di quanto possa ricordare” e visita il villaggio di Arakib nel Negev, in tempo per vedere edifici che vengono demoliti per la 192a volta. Sta descrivendo la “pulizia etnica” senza dire le parole scomode:

La famiglia al-Turi discende da nomadi arabi beduini che hanno percorso la regione per secoli, e in seguito si sono stabiliti nel Negev prima della fondazione di Israele.

Israele dice che la maggior parte dei beduini non ha diritto alla terra…

Il gruppo di pressione pro-Israele CAMERA è straordinariamente difensivo sul lungo rapporto di Kingsley. Insiste sul fatto che l’articolo riguarda la “tristezza” israeliana e che Kingsley si è sbagliato. Da un membro dello staff di CAMERA: “La prima persona che hai incontrato è una persona disillusa dallo stato. Seconda persona, alienato. Terza persona, pensa che lo stato non dovrebbe esistere. Quarta persona, risentita. E questo in un paese che si posiziona costantemente in alto negli indici della felicità mondiale. È una cosa verosimile?”

La lobby non vuole vedere la verità. La Nakba è stato il peccato originale dello stato ebraico, con il quale non ha mai fatto i conti. Kingsley lo sa, e comunque in questa occasione considera suo compito dirlo agli americani.

P.S. I tempi stanno cambiando. Non siamo ancora arrivati ​​all’articolo del NYT Magazine di questa domenica, “The Unraveling of American Zionism”, di Marc Tracy, che si concentra su quella lettera rabbinica di 93 studenti lo scorso maggio durante l’attacco israeliano a Gaza, in cui si  condanna Israele come stato di apartheid.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

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