Man mano che la dipendenza di Israele dagli Stati Uniti si riduce, si riduce anche l’influenza degli Stati Uniti su Israele

Mag 28, 2021 | Riflessioni

diMax Fisher, 

The New York Times, 24 maggio 2021. 

Israele ha tranquillamente cercato, e forse raggiunto, una larga misura di autonomia dal suo mezzo secolo di dipendenza dagli Stati Uniti.

Un uomo sventola le bandiere di Israele e degli Stati Uniti davanti a una manifestazione a sostegno della Palestina la scorsa settimana a Copley Square, Boston, Massachusetts. Joseph Prezioso / Agence France-Presse – Getty Images

Israele, un piccolo paese circondato da avversari e invischiato in un lungo conflitto con i Palestinesi, dipende assolutamente dal sostegno diplomatico e militare americano. Dandogli questo sostegno, gli Stati Uniti salvaguardano Israele e esercitano una notevole influenza sulle sue azioni.

Questa, comunque, è l’opinione comune. Per decenni è stato vero: i leader e gli elettori israeliani hanno visto Washington come essenziale per la sopravvivenza del loro paese.

Ma quella dipendenza potrebbe finire. Mentre Israele trae ancora molti benefici dall’assistenza americana, esperti di sicurezza e analisti politici affermano che il paese ha tranquillamente coltivato, e potrebbe aver raggiunto, un’autonomia effettiva dagli Stati Uniti.

“Stiamo assistendo a molta più indipendenza israeliana”, ha detto Vipin Narang, uno specialista in scienze politiche del Massachusetts Institute of Technology che ha studiato la strategia israeliana.

Israele non ha più bisogno delle garanzie di sicurezza americane per proteggersi dagli stati vicini, con i quali ha per lo più fatto la pace. Né sente il bisogno della mediazione americana nel conflitto palestinese, che gli Israeliani trovano in gran parte sopportabile e accettano che rimanga così com’è.

Se un tempo dipendeva dai trasferimenti di armi americane, Israele ora produce in casa molte delle sue armi più essenziali. È diventato anche più autosufficiente diplomaticamente, e coltiva alleati svincolati da Washington. Anche culturalmente, gli Israeliani sono meno dipendenti dall’approvazione americana e mettono meno pressione sui loro leader perché mantengano una buona reputazione a Washington.

Forze di terra israeliane al confine di Gaza, domenica 16 maggio 2021. Dan Balilty per The New York Times

Sebbene gli aiuti americani a Israele rimangano elevati in termini assoluti, il decennale boom economico di Israele ha reso il paese sempre più indipendente. Nel 1981, gli aiuti americani erano equivalenti a quasi il 10 per cento dell’economia israeliana. Nel 2020, con quasi 4 miliardi di dollari, il rapporto era vicino all’uno per cento. 

Washington ha reso evidente il suo diminuito impegno nel conflitto della scorsa settimana, chiedendo un cessate il fuoco solo dopo che un accordo mediato dall’Egitto era in fase di completamento. E i leader israeliani hanno detto di aver accettato la tregua perché ormai avevano completato i loro obiettivi militari nei dieci giorni di conflitto con Gaza. Il Segretario di Stato Antony J. Blinken visiterà la regione questa settimana, ma ha detto che non intende riavviare formali trattative di pace israelo-palestinesi. 

Questo cambiamento avviene proprio mentre una fazione di democratici e attivisti di sinistra negli Stati Uniti, indignati per il trattamento riservato da Israele ai Palestinesi e per i bombardamenti su Gaza, stanno mettendo in discussione lo storico sostegno di Washington a Israele.    

Tuttavia, un numero significativo, anche se in calo, di Americani esprime sostegno a Israele, e i politici democratici hanno resistito al crescente supporto che i loro elettori tendono a dare ai Palestinesi.     

Gli Stati Uniti hanno ancora la loro influenza, come fanno con tutti i paesi a cui forniscono armi e supporto diplomatico. In effetti, l’abbraccio incondizionato dell’ex presidente Donald J. Trump al governo israeliano ha dimostrato che Israele continua a trarre vantaggio da questa relazione. Ma l’influenza americana potrebbe essere in declino fino ad arrivare al punto in cui Israele potrà e vorrà fare ciò che gli pare, con o senza consenso bipartisan.

Passi verso l’autosufficienza

Quando gli Americani pensano al conflitto israelo-palestinese, molti immaginano ancora il periodo della Seconda Intifada, quando i carri armati israeliani scorrazzavano per le città palestinesi e le bombe palestinesi esplodevano nei caffè e negli autobus israeliani.

Ma questo avveniva 15 anni fa. Da allora, Israele ha riprogettato il conflitto in modi e forme che gli elettori e i leader israeliani trovano per lo più sopportabili.

La violenza contro gli Israeliani nella Cisgiordania occupata è oggi più rara e di livello inferiore, ancora più rara in Israele vero e proprio. Sebbene siano scoppiati ripetutamente combattimenti tra Israele e i gruppi che hanno sede a Gaza, le forze israeliane sono riuscite a farne pagare il fardello in modo schiacciante agli abitanti di Gaza. Le morti nei conflitti, una volta nel rapporto di tre Palestinesi per un Israeliano, ora sono più vicine al rapporto di 20 a uno.

Allo stesso tempo, la disaffezione israeliana per il processo di pace ha lasciato pensare a molti che i combattimenti periodici siano l’opzione meno negativa. L’occupazione, sebbene sia una realtà schiacciante e onnipresente per i Palestinesi, per la maggior parte degli Ebrei israeliani e nella maggior parte dei giorni, è una cosa che si può tranquillamente ignorare.

“Gli Israeliani si sentono sempre più a loro agio con questo approccio”, ha detto Yaël Mizrahi-Arnaud, ricercatrice presso il Forum for Regional Thinking, un gruppo di studio israeliano. “È un costo che sono disposti ad accettare.”

È uno status quo che Israele può mantenere con poco aiuto esterno. Negli anni passati, i suoi strumenti militari più importanti erano aerei da guerra di fabbricazione americana e altri equipaggiamenti di fascia alta, che richiedevano l’approvazione del Congresso e della Casa Bianca.

Ora, si basa sulla tecnologia di difesa missilistica che viene prodotta e mantenuta in gran parte nel paese – un’impresa che lascia intuire quanto sia tenace la spinta di Israele all’autosufficienza.  

“Se cinque anni fa mi avessi detto”, aggiunge Narang, lo studioso del MIT, “che gli Israeliani avrebbero avuto un sistema di difesa missilistico stratificato contro razzi a corto raggio e missili balistici a corto raggio, e che questo sarebbe stato efficace al 90 per cento, avrei detto: “Ti devi esser fumato delle canne invidiabili.”

Strisce di fumo dal sistema antimissile israeliano Iron Dome che intercetta i razzi lanciati dalla Striscia di Gaza verso Israele, visti da Ashkelon, Israele, 15 maggio 2021. Amir Cohen / Reuters

Sebbene gli ingenti finanziamenti americani sotto il presidente Barack Obama abbiano contribuito a sostenere il sistema, ora la difesa israeliana funziona a un prezzo relativamente abbordabile di 50.000 dollari per razzo intercettore.

Israele ha iniziato a lavorare per l’autonomia militare negli anni ’90. I rapporti freddi con l’amministrazione di George HW Bush e la sensazione che gli USA non riuscissero a impedire ai missili iracheni di colpire Israele hanno portato i suoi leader alla conclusione che non potevano contare sull’appoggio americano per sempre.

Questa convinzione si è approfondita sotto i successivi presidenti USA, la cui pressione per fare la pace con i Palestinesi era sempre più in contrasto con le preferenze israeliane di mantenere il controllo della Cisgiordania e bloccare strettamente Gaza.

“Il calcolo politico ha portato alla ricerca di risorse indipendenti che non fossero più soggette alla leva e alla pressione degli Stati Uniti”, ha detto Narang, aggiungendo che l’intelligence di Israele ha anche cercato di raccogliere informazioni in modo indipendente. “Sembra proprio che siano riusciti ad arrivare a questo punto.”

La “politica degli altri amici”

C’è un’altra minaccia esistenziale contro la quale Israele non fa più tanto affidamento sulla protezione americana: l’isolamento internazionale.

Israele una volta cercava l’accettazione delle democrazie occidentali, che chiedevano di soddisfare gli standard democratici, anche se conferivano legittimità a un paese che altrimenti aveva pochi amici.

Oggi Israele deve affrontare un clima internazionale molto più caldo. Le potenze “antimperialiste” che una volta sfidavano Israele sono andate avanti. Mentre gli atteggiamenti internazionali nei suoi confronti sono misti e tendono ad essere nettamente negativi nelle società a maggioranza musulmana, Israele ha coltivato legami in alcune parti dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina.     

Anche gli stati arabi vicini, come la Giordania e l’Egitto, una volta tra i suoi più grandi nemici, ora cercano la pace, mentre altri hanno alleviato le ostilità. L’anno scorso, i cosiddetti accordi di Abramo, mediati dal presidente Trump, hanno visto Israele normalizzare i legami con il Bahrein e con gli Emirati Arabi Uniti. Israele ha successivamente normalizzato i rapporti con il Marocco e ha raggiunto un accordo diplomatico con il Sudan. 

“Si parlava di uno tsunami diplomatico in arrivo. Ma non si è mai materializzato”, ha detto Dahlia Scheindlin, analista politica e sondaggista israeliana.

Scheindlin conduce un sondaggio annuale in cui chiede agli Israeliani di fare una classifica delle sfide nazionali. La sicurezza e l’economia vengono invariabilmente prima di tutto. Le relazioni estere sono ora quasi le ultime.

Anche se i diplomatici europei mettono in guardia su conseguenze che non arriveranno mai e i Democratici americani mettono in discussione il futuro dell’alleanza, ha detto Scheindlin, gli Israeliani considerano eccellente la loro posizione internazionale.

Anche per quanto riguarda la diplomazia, Israele ha cercato l’indipendenza dagli Americani.

A metà degli anni 2010, Benjamin Netanyahu, primo ministro israeliano, fece quasi apertamente una campagna contro la rielezione del presidente Obama a causa delle sue politiche in Medio Oriente, facendo precipitare le relazioni tra i due paesi.

Da allora, Netanyahu ha coltivato rapporti con una rete di democrazie illiberali che, lungi dal condannare il trattamento di Israele nei confronti dei Palestinesi, lo considerano ammirevole: Brasile, Ungheria, India e altri.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (sin.) è accolto dal presidente eletto del Brasile Jair Bolsonaro al forte di Copacabana, Rio de Janeiro, Brasile, 2018. Foto Leo Correa

Scheindlin la chiama la “politica degli altri amici”. Di conseguenza, gli Israeliani non vedono più l’accettazione americana come un fattore cruciale per la loro sopravvivenza.

Allo stesso tempo, il crescente nazionalismo ha aumentato la tendenza a scrollarsi di dosso le critiche internazionali.

Il sostegno di Washington alle credenziali democratiche di Israele, una sorta di leva morbida da tempo esercitata dai diplomatici americani, significa meno ogni anno che passa.

Rischiare il consenso

Uno dei compiti principali di qualsiasi primo ministro, si è sempre detto in Israele, è salvaguardare il consenso bipartisan di Washington a sostegno del paese.

Quindi, quando Netanyahu ha allineato Israele con i Repubblicani a metà degli anni 2010, attaccando persino Obama dall’aula del Congresso, ci si aspettava che dovesse pagare un costo politico all’interno del suo paese.

Ma Obama e i Democratici al Congresso hanno fatto ben poco per ridimensionare il loro sostegno. Poi gli Americani hanno eletto Donald J. Trump, che si è preso cura di Netanyahu più di qualsiasi altro presidente.

Quell’episodio ha instillato nel paese un “senso di impunità”, ha detto Scheindlin. “Gli Israeliani hanno imparato che possono sopportare anche le situazioni più calde, possono gestire un po’ di rapporti difficili”.

In una serie di dibattiti condotti dopo l’elezione del presidente Biden, Scheindlin ha affermato di aver scoperto che gli Israeliani non temono più ritorsioni da parte dei politici americani.

“Le persone non sono così impressionate”, ha detto. “Per loro: ‘È l’America. Andrà bene anche Biden.'”

Allo stesso tempo, molti Israeliani hanno perso interesse per il processo di pace. La maggior parte lo vede destinato a sparire, come mostrano i sondaggi, e un numero crescente lo considera una priorità bassa, dato che gran parte dell’opinione pubblica israeliana vede lo status quo come una cosa tollerabile. 

“Questo cambia la natura dei rapporti con gli Stati Uniti”, ha detto Yaël Mizrahi-Arnaud.

Poiché i leader israeliani non sentono più la pressione interna per impegnarsi nel processo di pace, che implica la partecipazione di Washington, non hanno bisogno di persuadere gli Americani che stanno cercando la pace in buona fede.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu con l’ex presidente Donald Trump partecipa alla cerimonia di firma degli accordi di Abramo sul prato sud della Casa Bianca, 15 settembre 2020, Washington, DC Doug Mills / The New York Times

Invece, i leader sono di fronte a una pressione decrescente a compiacere gli Americani e alla crescente richiesta di sfidarli con politiche come l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania, o addirittura con la diretta annessione.

Israele non è certo il primo piccolo stato a cercare l’indipendenza da una grande potenza protettrice. Ma questo caso è insolito: sono stati proprio gli Americani a costruire l’indipendenza militare e diplomatica di Israele, erodendo così la loro stessa influenza.

Ora, dopo quasi 50 anni in cui non ha esercitato del tutto quella leva che aveva per porre fine al conflitto israelo-palestinese, l’influenza americana potrebbe presto scomparire definitivamente, se non è già scomparsa.

“Israele sente di poter farla franca sempre di più”, ha detto Mizrahi-Arnaud, aggiungendo, per sottolineare il suo punto, “quando è stata esattamente l’ultima volta che gli Stati Uniti hanno fatto pressione su Israele?”

Max Fisher è un giornalista e editorialista internazionale con sede a New York. Ha riferito da cinque continenti su conflitti, diplomazia, cambiamento sociale e altri argomenti. Scrive The Interpreter, una rubrica che esplora le idee e il contesto dietro i principali eventi mondiali. @Max_Fisher • Facebook     

Traduzione di Donato Cioli – AssopacePalestina

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