Hamas esce dalla sua gabbia di Gaza

Mag 31, 2021 | Riflessioni

di Amjad Iraqi,

+972 magazine, 21 maggio 2021.

Il movimento islamista ha sorpreso Israele e la comunità internazionale intervenendo sull’onda di una rivolta popolare a Gerusalemme. Ma alcuni Palestinesi rimangono guardinghi rispetto alla cooptazione dei movimenti popolari da parte delle varie fazioni in campo, sostiene l’analista Tareq Baconi.

Palestinesi con le bandiere di Hamas, riuniti dopo la preghiera dell’ultimo venerdì del Ramadan per protestare contro il possibile sfratto di famiglie palestinesi dalle case nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, 7 maggio 2021 (Jamal Awad/Flash90)

Finalmente giovedì notte è stato annunciato un cessate il fuoco fra Israele e Hamas, dopo 11 giorni di bombardamenti devastanti e lanci indiscriminati di razzi, che hanno ucciso più di 240 Palestinesi nella Striscia di Gaza e 12 persone in Israele. Per molti osservatori, questo accordo che, se tiene, eviterà senza dubbio innumerevoli altri morti, feriti e distruzioni insensate, dovrebbe finalmente porre fine alla feroce saga.

Questo disperato ritorno alla “calma”, tuttavia, rimane una parte fondamentale del problema.

Mentre i loro scontri armati si placano, Israele e Hamas tendono a instaurare un equilibrio “molto violento” che spinge di nuovo la Striscia di Gaza “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, mette in guardia Terek Baconi, un analista presso l’International Crisis Group, e autore di Hamas sotto controllo: ascesa e pacificazione della Resistenza Palestinese. Quello status quo ante –che consiste in assedio brutale, indifferenza internazionale, frammentazione politica e geografica– è esattamente ciò che è necessario abbattere, sostiene Baconi.

In una intervista con +972, il giorno prima che il cessate il fuoco venisse annunciato, Baconi ha spiegato che Hamas aveva demolito molte convinzioni israeliane. Aveva infatti deciso di intervenire militarmente in seguito a un movimento popolare emerso a Gerusalemme lo scorso mese, che si era mobilitato contro l’espulsione forzata di famiglie da Sheikh Jarrah e contro gli attacchi israeliani alla Moschea di Al-Aqsa e alla Porta di Damasco. Anche se queste proteste nella città santa stavano ottenendo piccole concessioni israeliane, dal punto di vista di Hamas “non sarebbero mai salite al gradino successivo senza la forza militare”.

Mentre fra i Palestinesi c’è un profondo dibattito sul coinvolgimento di Hamas, ha aggiunto Baconi, non si può dire lo stesso della comunità internazionale. Da quanto lui vede, i governi stranieri rimangono “completamente congelati” nella loro convinzione che il movimento islamista “attacca irrazionalmente Israele per qualche sconosciuto e decontestualizzato motivo”. Senza un riconoscimento che queste convinzioni sono errate, sostiene, il mondo tornerà semplicemente a normalizzare la quotidiana oppressiva violenza imposta dal controllo israeliano su tutti i Palestinesi, controllo di cui Gaza è un esempio indicativo piuttosto che un’eccezione.

Operatori sanitari della Mezzaluna Rossa Palestinese controllano i danni dopo un attacco israeliano a Gaza, 7 maggio 2021. (Mohammed Zaanoun/Activestills)

+972 ha parlato con Baconi circa gli effetti dell’intervento di Hamas sulla politica palestinese; per quale motivo gli Israeliani siano stati colti di sorpresa dalla mossa, e per quale motivo il nascente movimento popolare palestinese debba essere vigile nella sua sfida ai governanti stranieri e nazionali mentre lotta per la liberazione. L’intervista è stata revisionata per motivi di chiarezza.

La recente “escalation” è cominciata con un movimento popolare di base a Gerusalemme, a Sheikh Jarrah e alla Città Vecchia, quasi in assenza di qualunque fazione politica. Ma ciò è cambiato drasticamente quando Hamas ha cominciato a lanciare razzi su Israele la scorsa settimana. Per quale motivo Hamas ha deciso di buttarsi nella mischia? Quale era il suo calcolo?

Hamas ha dichiaratamente un obiettivo nazionale per i Palestinesi, e specifiche motivazioni come movimento attualmente limitato alla Striscia di Gaza.

Per molto tempo, perfino sotto [il precedente capo politico] Khaled Meshaal, Hamas ha flirtato con l’idea della protesta popolare. Il movimento non è stato sempre esclusivamente votato alla lotta armata; ha anche riflettuto sul potere delle manifestazioni popolari e della legge internazionale. Tuttavia, c’è una sfumatura di cinismo all’interno del movimento, per cui si pensa che le proteste popolari non guadagneranno mai un livello di pressione internazionale o di sostegno pari a quello della lotta per i diritti civili negli USA o della lotta anti-apartheid in Sudafrica.

Questo cinismo è stato sperimentato nella Grande Marcia del Ritorno. Nel corso di diverse settimane di sostenuta mobilitazione popolare non c’è stata una risposta adeguata da parte della comunità internazionale, persino quando Israele faceva il tiro al bersaglio sui Palestinesi. È stato solo quando Hamas si è gettato nella mischia e ha alzato la posta dei “disturbi” contro Israele che la situazione ha cominciato a cambiare, e sono iniziati i negoziati su concessioni come l’allentamento del blocco su Gaza. La lezione per Hamas è stata molto chiara: a meno che Israele non si senta sotto pressione, o militarmente o con altre forme di “disturbo”, non concederà nulla.

Questo era il calcolo di Hamas sulle attuali proteste. C’è stata una “vittoria”, nel senso che la Corte Suprema Israeliana ha rinviato la sua decisione su Sheikh Jarrah, e la “Marcia della bandiera” nel Jerusalem Day è stata dirottata. Ma per quanto riguarda Hamas queste proteste non sono riuscite a imporre reali concessioni da parte di Israele, e non avrebbero mai raggiunto il successivo livello senza la forza militare dato che, secondo Hamas, quello è l’unico modo in cui si ottengono risposte da Israele.

Palestinesi con le bandiere di Hamas dopo l’ultima preghiera del venerdì del Ramadan, per protestare contro il possibile sfratto di famiglie palestinesi dalle case del quartiere Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est. 7 maggio 2021. (Jamal Awad/Flash90)

Ci sono state molte divisioni all’interno del movimento. C’erano coloro che sostenevano che l’attenzione del mondo è concentrata sulla profanazione dei luoghi santi islamici da parte di Israele, e che si doveva puntare su questo, e non appropriarsi della protesta popolare. D’altro canto, soprattutto [per membri di Hamas] a Gaza, l’impressione era di avere già visto questo film in precedenza, ed era necessario sostenere le proteste che altrimenti si sarebbero trasformate in un bagno di sangue. In definitiva, ai loro occhi, doveva esserci una difesa dei Palestinesi contro la letale oppressione israeliana.

Il calcolo più specifico, strategico per il movimento stesso, è che negli ultimi mesi Hamas ha sperato in elezioni per affermarsi fuori da Gaza. Dato che questa non è più un’opzione, Hamas si trovava in una situazione in cui o tornava allo status quo o procedeva ad un rinnovamento radicale.

Molti report suggeriscono che gli analisti governativi e militari di Israele sono stati colti di sorpresa dalla decisione di Hamas di intervenire. Era davvero così sorprendente? Che cosa ci dice circa la comprensione o l’incomprensione di Hamas da parte di Israele?

Per me non è affatto sorprendente che gli analisti israeliani siano stati colti di sorpresa. Essi sanno molto bene che non esiste in realtà una strategia specifica per trattare con Hamas, ma anche nessuna strategia per trattare con i Palestinesi in generale, quindi si concentrano solo su come gestire il conflitto.

Con questo approccio sono arrivati ad un equilibrio decisamente sostenibile con Hamas. Lo dico con gran dispiacere perché si tratta di un equilibrio che, sostanzialmente, è basato sulla punizione collettiva e su un blocco molto violento nei confronti dei Palestinesi.

Questo equilibrio, che entrambe le parti implicitamente mantenevano, era basato sul fatto che il blocco sarebbe rimasto in vigore. Quando Gaza è spinta al limite della sopportabilità, Hamas usa il lancio di razzi per protestare contro il blocco e contro la violenza che questo infligge sui Palestinesi, e attraverso questo lancio di razzi Hamas è in grado di ottenere concessioni dal governo israeliano. È in questo avanti e indietro che si verificano i negoziati. Tuttavia, fuori da quei tira-e-molla, per gli analisti israeliani, Gaza è lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Si aspettano “calma” da Gaza. Per loro il blocco non è un atto di guerra, sono i razzi ad essere un atto di guerra.

Razzi sparati da militanti di Hamas su Israele, visti sulla città di Kiryat Gat, nel centro di Israele. 18 maggio 2021. (Nati Shohat/Flash90)

In quanto parte di questo equilibrio, Israele vedeva Hamas come un movimento che parla solo per conto dei Palestinesi di Gaza, credendo che fosse effettivamente limitato alla Striscia. C’era molta fiducia nell’idea che Hamas fosse stato neutralizzato fuori da Gaza, e che Hamas facesse salire la tensione solo quando voleva specifiche concessioni per Gaza.

Con questa recente escalation, Hamas ha distrutto tutte queste supposizioni. Innanzi tutto ha aumentato la tensione impegnandosi per Gerusalemme e non per Gaza. Storicamente non si tratta di una novità, ma è una novità dall’inizio del blocco. In secondo luogo, ha demolito il presupposto che Gaza sia gestibile da parte di Israele, e che il contenimento di Hamas possa andare avanti all’infinito. Così questa improvvisa “eruzione” è davvero una sorpresa per gli Israeliani. È anche una testimonianza dell’arroganza di Israele nel credere di poter continuare a spingersi sempre più avanti senza nessuna reazione da parte dei Palestinesi.

Sembra che ci sia differenza di vedute fra i Palestinesi relativamente all’intervento militare di Hamas. Che reazioni vedi fra il pubblico? In che modo questo sta condizionando il rapporto e l’immagine del partito con la gente, specialmente a Gaza?

Ci sono Palestinesi che sono fedeli all’idea delle manifestazioni popolari, che credono che i sit-in durante l’iftar [la cena serale che interrompe il digiuno nei giorni del Ramadan] e le preghiere di protesta porteranno da tutto il mondo maggiore attenzione ai Palestinesi, e che questo forzerà la mano di Israele. Essi sono fortemente convinti che una lotta militare di qualunque tipo sia problematica perché, da un punto di vista strategico, i Palestinesi non possono vincere militarmente contro Israele. Credono anche che una cooptazione delle proteste popolari da parte di una fazione o dell’altra sia negativa perché prende una cosa che potrebbe essere nazionale e la mette sotto una lente di parte.

L’altro lato del dibattito dice che ci deve essere un bilanciamento dei poteri per riuscire a cambiare l’equilibrio, e ciò non si ottiene esclusivamente con le proteste popolari. Pensare che questo sia il modo in cui sono avvenute le lotte per i diritti civili o contro l’apartheid significa idealizzare quelle lotte; in particolare, il movimento in Sud Africa aveva una frangia armata. Perciò c’è l’idea che la forza delle armi, anche se non libererà la Palestina, deve essere usata per infliggere dolore, provocare un costo, dissuadere Israele da ulteriori violenze contro i Palestinesi. Questa parte considera gli attacchi di Hamas come una sorta di vittoria; anche se Gaza ne ha pagato il prezzo, psicologicamente hanno avuto un effetto incredibile.

Manifestanti palestinesi si scontrano con le forze di sicurezza israeliane vicino al checkpoint di Hawara a Nablus, nel sud della Cisgiordania. 18 maggio 2021. (Nasser Ishtayeh/Flash90)

Come sono viste le mosse di Hamas al di là di questo? Durante alcune manifestazioni in Cisgiordania, questa settimana, c’era gente che inneggiava al nome di Mohammed Deif [il comandante in capo delle Brigate al-Qassam di Hamas] o cantava contro Mahmoud Abbas e a favore di Ismail Haniyeh [attuale capo politico di Hamas]. Nella coscienza nazionale Hamas viene visto come difensore e protettore dei diritti dei Palestinesi.

Ci sono ovviamente delle complessità intorno all’ideologia di Hamas; molti Palestinesi possono sostenere la vittoria che Hamas ha portato avanti la scorsa settimana, ma essere contro l’ideologia islamista. Ma queste sono alcune delle cose che vanno sbrogliate per capire come possa esserci una strategia sfaccettata della liberazione palestinese, che potrebbe strategicamente costruirsi su diverse tattiche di resistenza.

Hai accennato a come Hamas sperava che le elezioni si svolgessero, e come alcune persone ora lo percepiscono in modo diverso rispetto all’Autorità Palestinese. Come vedi i recenti eventi che hanno influenzato le relazioni Hamas-AP, o qualsiasi tentativo di ripristinare le elezioni?

C’è stato un cambiamento interessante nel corso della settimana. Quando le proteste hanno cominciato ad espandersi oltre Sheikh Jarrah, l’Autorità Palestinese è stata molto attiva nel reprimere le proteste in Cisgiordania e nell’eliminare qualsiasi minaccia che Hamas vi si espandesse; la scusa che adducevano era che avrebbero perso il controllo del territorio.

Dopo che le azioni militari a Gaza sono aumentate, i funzionari dell’OLP e dell’Autorità Palestinese hanno capito che non potevano essere visti come critici nei confronti di Hamas in questa escalation. Questa è una lezione che hanno imparato durante e dopo la Seconda Intifada: ogni volta che Hamas otteneva vittorie simboliche e l’Autorità Palestinese le rifiutava (come durante l’accordo di scambio di prigionieri di Gilad Shalit), Hamas assumeva il ruolo del difensore e l’AP figurava come il partito incompetente.

Così, durante la scorsa settimana, i funzionari dell’AP e dell’OLP hanno iniziato a parlare della necessità di sfruttare a favore della lotta palestinese lo spazio che Hamas aveva ottenuto con questo episodio. C’è stato il riconoscimento che Hamas è una forza che non può essere ignorata e che posizionarsi contro di essa poteva ritorcersi contro Fatah [il partito di Mahmoud Abbas, il più grande nell’AP e nell’OLP]. Quindi, in un certo senso, c’è stata una narrazione più unitaria a cui entrambe le fazioni sono state costrette da questi eventi più ampi, a cui infiniti round di colloqui di riconciliazione non erano riusciti a farli arrivare.

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas durante un tour nella città di Ramallah in Cisgiordania, 15 maggio 2020. (Flash90)

Penso che raggiungeranno l’unità o che dovrebbero tornare alle elezioni ? No: entrambe le parti vivono ancora in un gioco a somma zero e la crisi è più grande di ciascuna delle fazioni. Ma dobbiamo ancora parlare delle elezioni come un modo per rianimare l’OLP, piuttosto che per realizzare un governo di unità sotto l’Autorità Palestinese. I Palestinesi devono ancora ripensare al modo in cui Hamas e Fatah possono sedere insieme ad altri partiti in un progetto di liberazione nazionale.

Se le elezioni miravano solo a sanare istituzionalmente la divisione tra Gaza e la Cisgiordania, in qualche modo abbiamo superato quella retorica, perché ora c’è un senso di lotta condivisa. A Ramallah sentono che stanno protestando per Gaza –cosa che l’AP non ha permesso nel 2014– e la sensazione a Gaza è che questa è una lotta palestinese unita, anche se con un certo risentimento per il fatto che sono loro a pagarne il prezzo.

Gli attori internazionali, dall’UE agli Stati Uniti, sono sembrati ricadere immediatamente nei loro vecchi schemi e abitudini di dare priorità “all’autodifesa” di Israele appena vengono lanciati i razzi. Questo sembra suggerire che non ci siano stati molti cambiamenti tra i governi stranieri nella loro percezione di Hamas o nella loro volontà di provare un approccio diverso quando si verificano questi scontri. Vedi qualche cambiamento dietro le quinte, nonostante le posizioni pubbliche?

No, non c’è spostamento. L’UE e gli Stati membri europei hanno da tempo affermato che bisogna rendersi conto di cosa accadrebbe se Hamas vincesse le elezioni e che ci deve essere un modo per rivedere le condizioni del Quartetto per assicurarsi che, se Hamas davvero vincesse, non si ripeterebbe la débacle del 2006 [quando gli attori internazionali sanzionarono il governo palestinese e appoggiarono Fatah nel tentativo di cacciare Hamas].

Tuttavia, nonostante molti diplomatici ben intenzionati spingano per la necessità di rivedere la politica dell’UE nei confronti di Hamas, non c’è stato assolutamente alcun progresso al riguardo. A mio parere, è abbastanza irresponsabile che abbiano spinto per queste elezioni sapendo che, se Hamas avesse vinto, non avrebbero saputo come affrontare il possibile risultato.

Il linguaggio pro forma che si appella al “diritto all’autodifesa” di Israele e alla “de-escalation da entrambe le parti” è un sintomo di quell’incapacità di afferrare Hamas, mostrando che la comunità internazionale è molto congelata nei confronti del movimento. Non riescono a capire che Hamas è una fazione politica impegnata nella liberazione della Palestina e sono ancora concentrati su una narrativa molto particolare.

Il corpo di artiglieria dell’IDF fa fuoco su Gaza, vicino al confine israeliano con Gaza, il 12 maggio 2021, a seguito di una forte raffica di razzi lanciati da militanti di Gaza, 12 maggio 2021. (Yonatan Sindel / Flash90)

Ma non si tratta solo di Hamas. Ciò che mi fa sbalordire è che nel momento in cui la comunità internazionale ha iniziato a parlare di “autodifesa”, c’erano già 500 Palestinesi feriti dalle forze israeliane a Gerusalemme. La retorica del “diritto all’autodifesa”, infatti, è emersa solo quando il primo razzo è atterrato in Israele; vale solo per Israele ed è causata solo da Hamas. A parte ciò, la comunità diplomatica non riesce proprio a comprendere la violenza dell’occupazione o il diritto dei Palestinesi a difendersi.

Fino a quando non viene accolta questa premessa, nessuna forma di coinvolgimento con Hamas sarà produttiva, perché sarà visto solo come un partito che sta attaccando irrazionalmente Israele per qualche ragione fuori contesto e sconosciuta.

Il movimento popolare palestinese ha continuato a crescere nelle ultime settimane, con il coinvolgimento dei Palestinesi in Israele e la ri-mobilitazione dei Palestinesi a Gerusalemme. Al suo interno, sembra esserci una tensione tra i manifestanti di base decentralizzati e le leadership tradizionali, che vanno da Fatah ad Hamas e fino all’ High Follow-Up Committee. Come giudica queste dinamiche interne?

È una buona domanda che si estende oltre il momento attuale. Ciò che mi dà conforto –e che mi spaventa– è il fatto che siamo già passati diverse volte da tutto questo, a partire dalla Grande Rivolta Araba del 1936-39.

Ogni volta che pensiamo alle sommosse che sono avvenute nelle strade palestinesi, vediamo che sono avvenute quasi sempre nonostante la leadership delle élites, e a causa del fallimento delle élites nel combattere per i Palestinesi nel modo in cui i Palestinesi chiedono che sia combattuta la loro battaglia. Possiamo tracciare questa linea dalla Grande Rivolta fino a Oslo e alla Prima e Seconda Intifada. Ciò che mi dà conforto è che c’è una bussola morale nelle strade palestinesi che obbliga costantemente la leadership a rispondere delle sue azioni e che rifiuta di essere trascinata nell’acquiescenza.

Ma allo stesso tempo, ciò che mi fa paura è che in passato il movimento sia stato semplicemente cooptato e che sia stata sempre la leadership a decidere la strada da seguire. Questa è la dinamica che stiamo vedendo ora sul campo. Abbiamo parlato di come quello che sta facendo Hamas potrebbe essere visto come una cooptazione; anche Fatah sta cercando di cooptare le proteste in Cisgiordania. La leadership si sta aggrappando a chi protesta per provare a rendersi di nuovo rilevante. Cercherà di incanalare nelle sue strutture questa rivolta dal basso e di accreditarsi come il partito responsabile che troverà la soluzione.

Tuttavia, se la storia ci ha insegnato qualcosa, è che non dovremmo fidarci di questo. I Palestinesi devono trovare un modo per mantenere questa rivolta popolare al di là delle strutture di leadership che esistono oggi.

Palestinesi partecipano a una manifestazione di Hamas in occasione del 32° anniversario della sua fondazione, nel campo di Nusseirat nel centro di Gaza City, 15 dicembre 2019. (Hassan Jedi/Flash90)

Questo non vuol dire che non dovrebbe esserci una leadership per il movimento. Quello che abbiamo imparato dalle rivolte arabe del 2011 è che, se non c’è una leadership in grado di prendere decisioni politiche e strategiche, vincono i poteri occulti e lo status quo. Questa leadership non può essere attribuita alle stesse istituzioni corrotte che ci hanno portato dove siamo oggi. Occorre una leadership più inclusiva che emerga da questa mobilitazione di base. Quale forma prenda non è ancora chiaro, ma siamo ancora agli inizi.

Cos’altro vorresti mettere in evidenza in questo momento?

Una cosa a cui penso sempre è come, nella mente della comunità internazionale – e in qualche modo, sempre più nella mente degli stessi Palestinesi – Gaza sia diventata un’eccezione.

Questo episodio lo ha sia messo in dubbio e sia rafforzato. Per i Palestinesi, c’è stato un incoraggiante abbraccio a Gaza per riportarla all’ovile, anche se la maggior parte dei Palestinesi non è mai stata a Gaza e non capisce facilmente cosa vuol dire essere lì. Allo stesso tempo, c’è la sensazione che anche in questa escalation, la lotta armata e Gaza siano diventate la stessa cosa, cioè che, siccome Hamas sta lanciando i suoi attacchi da Gaza, Gaza fa sempre la lotta armata, mentre le proteste popolari avvengono altrove.

È quindi molto importante far capire che Gaza non è un’eccezione. Dobbiamo iniziare a pensare non solo al fatto che un Palestinese a Gaza e un Palestinese in Cisgiordania stanno combattendo lo stesso regime, ma che ci sono anche diverse tattiche per combattere quel regime. Questo potrebbe essere divisivo, ma ciò non significa che le diversità di opinione portino a trovarsi da parti opposte in quella battaglia.

I Palestinesi hanno bisogno di una narrativa più olistica, che sia in grado di contenere tutte queste complessità e sfumature, e che sia in grado di contrastare l’idea che da una parte ci sia l’escalation Gaza-Israele, e poi tutto il resto stia da un’altra parte. La narrativa che si sta formando ora è molto potente perché sta combattendo contro questo, ed è quella che dobbiamo continuare a ripetere.

Amjad Iraqi è editore e scrittore di +972 Magazine. È anche analista politico presso il think tank Al- Shabaka e in precedenza è stato coordinatore di patrocinio presso il centro legale Adalah. È un cittadino palestinese di Israele, residente ad Haifa.

https://www.972mag.com/hamas-gaza-jerusalem-protests/

Traduzione di Rossella Rossetto e Maurizio Bellotto – AssopacePalestina

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1 commento

  1. antonello boassa

    Ti ringrazio…credo che scriverò qualcosa facendo riferimento a questo notevole contributo…personalmente sono stanco (ma l’idiozia generale che colpisce molti militanti sulla questione Covid-vaccini è illuminante) di vedere militanti che danno insegnamenti politici su come i Palestinesi devono combattere e sul discredito non solo politico ma anche morale che viene regolarmente attribuito ad Hamas. Ogni movimento di liberazione si avvale di una molteplicità di soggetti e di tattiche…è avvenuto in Sudafrica dove accanto alle proteste pacifiche esistevano anche movimenti armati… e la violenza era presente anche in India che si è liberata non solo tramite il pacifismo di Gandhi ma anche a causa del timore che in caso di sconfitta di Gandhi, l’India si potesse avvicinare all’URSS o alla Cina di Mao…per il momento solo queste sbrigative note…tratterò l’argomento in modo più esauriente in un’altra situazione…

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