L’opinione di un gruppo USA di sionisti progressisti sull’ultimo rapporto di Human Rights Watch

Mag 7, 2021 | Riflessioni

di: Partners for Progressive Israel,  

PPI, 6 maggio 2021. 

Come organizzazione dedicata ai diritti civili degli abitanti di Israele e ai diritti umani di tutti coloro che vivono sotto il controllo di Israele, Partners for Progressive Israel plaude al lavoro scrupoloso delle organizzazioni per i diritti umani in Israele, in Palestina e nel mondo, compreso quello di Human Rights Watch.

Nei giorni scorsi, il nuovo rapporto di Human Rights Watch, “A Threshold Crossed” [Un limite oltrepassato], è stato attaccato perché sostiene che il comportamento e la politica di Israele nei territori occupati equivale al crimine di apartheid. Questa affermazione si basa su tre criteri legali stabiliti in una convenzione delle Nazioni Unite del 1973 che definiva quel termine: che la politica di Israele è guidata dalla deliberata dominazione degli Ebrei sugli Arabi; che Israele opprime sistematicamente gli Arabi palestinesi sotto occupazione; e che atti disumani, come la negazione dei diritti umani fondamentali, vengono compiuti nei territori occupati come parte integrante di tale oppressione.

La nostra organizzazione non pretende di essere un arbitro del diritto internazionale. Ma mentre non possiamo determinare se la politica e il comportamento di Israele nei territori occupati raggiungano il livello di apartheid, affermiamo che l’occupazione costituisce un sistema di oppressione in cui a coloro che sono occupati sono indiscutibilmente negati uguali diritti umani.

Nei decenni passati, i governi israeliani hanno affermato che le loro politiche in Cisgiordania e Striscia di Gaza, per quanto dure, nascevano dalla necessità di preservare l’ordine e la sicurezza durante un periodo di occupazione che alla fine sarebbe terminato tramite negoziati. Negli ultimi anni, tuttavia, il governo israeliano sotto Binyamin Netanyahu, ha chiarito che l’occupazione non è più considerata uno stato di cose provvisorio da mantenere fino al raggiungimento di un accordo, ma è ora una fase preparatoria per l’annessione unilaterale (prima de facto, poi formalmente de jure) in cui i Palestinesi saranno confinati in piccole zone autonome non contigue che continueranno ad essere dominate da Israele. In altre parole, l’occupazione oggi fa parte di un piano per il controllo israeliano antidemocratico permanente, senza chiedere o vedere la necessità di un consenso dei governati – un piano che viene portato avanti, prima di tutto, per raggiungere obiettivi etnici e religiosi e in nome di una “proprietà” ebraica piuttosto che per motivi di sicurezza nazionale.

Israele, ovviamente, non è il Sud Africa. Non è stato fondato su un mito di superiorità razziale. Molti in Israele continuano a credere nell’uguale valore di tutti gli esseri umani e alcuni governi israeliani hanno sinceramente cercato di risolvere il conflitto attraverso un giusto compromesso. Noi siamo alleati di quegli Israeliani. All’interno dell’Israele sovrano, all’interno della Linea Verde, continua senza dubbio a esistere una discriminazione istituzionalizzata inaccettabile, ma questa realtà è ben lontana dalle condizioni nei Territori Occupati e, di per sé, non può essere definita apartheid, come Jimmy Carter ha riconosciuto nel 2006. L’immagine del Sud Africa dell’apartheid, o delle leggi razziste Jim Crow negli stati del sud, potrebbe quindi fuorviare il grande pubblico tanto quanto lo illumina. E la stessa parola “apartheid” spesso finisce per fornire una scappatoia a coloro che vorrebbero negare le documentate violazioni dei diritti umani da parte di Israele, consentendo loro di sviare l’attenzione dagli stessi abusi verso un dibattito sulla terminologia.

In definitiva, la domanda che deve essere affrontata non è se “apartheid” sia il termine legale o politico corretto, ma come la comunità internazionale e chi vuole pace in Israele e Palestina possano lavorare insieme per porre fine al sistema oppressivo ora in atto. Che lo chiamiamo “apartheid” o no, il sistema in atto è senza dubbio un sistema di oppressione e noi apprezziamo il lavoro di Human Rights Watch nel continuare a focalizzare l’attenzione americana e internazionale su questa realtà.

Traduzione di Donato Cioli – AssoPacePalestina

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