Perché gli Ebrei americani dovrebbero rifiutare la Legge del Ritorno di Israele

Mar 22, 2021 | Riflessioni

di Bernard Avishai,  

Haaretz, 15 marzo 2021. 

La Legge del Ritorno di Israele consolida l’eccezionalismo ebraico, soffoca la democrazia e rafforza una concezione di cittadinanza teocratica e discriminatoria oltremodo esecrabile. Gli Ebrei americani dovrebbero opporvisi.

L’assurdo e teocratico eccezionalismo ebraico di Israele è un affronto per gli Ebrei statunitensi che amano la democrazia. Credit: Emil Salman

Il 12 giugno 1995, in Québec si è tenuto un referendum sull’indipendenza dal Canada. Il 49,42% ha espresso voto favorevole mentre il 50,58% della popolazione voto contrario.

Proviamo ora invece a immaginare che, con un esito diverso per lo 0,75% dei voti, il Québec sia diventato uno Stato sovrano con la sua popolazione di otto milioni di persone, di cui l’80% composto da cattolici afferenti alla Chiesa Romana e di lingua francese – che per la gran parte si reputano essere i veri Québecois – e abbia dato così luogo alla sola comunità a prevalenza cattolica del Nord America.

Supponiamo inoltre che, data la storica persecuzione dei cattolici nel continente (con la deportazione degli Acadiani [gli abitanti francofoni dell’Acadia trasferiti dai Britannici nel XVIII sec.], l’occupazione britannica, il Ku Klux Klan), una delle prime leggi del nuovo Québec sia stata quella di concedere automaticamente la cittadinanza a qualsiasi cattolico autentico che desideri immigrare nel paese. I cittadini cattolici disporrebbero di un sistema scolastico parrocchiale pubblico separato, con preti e suore che insegnano la storia e i dogmi della Chiesa insieme con la lingua francese (questo sistema scolastico non è frutto di immaginazione ma è un dato reale: è esistito per quasi un secolo e mezzo dopo la fondazione del Canada nel 1867).

In aggiunta, proviamo a immaginare che in questo Québec divenuto recentemente indipendente i cattolici possano sposare solo altri cattolici legalmente certificati e non possano divorziare se non attraverso procedure approvate dalla Chiesa; e ancora, che circa il 90% della terra non edificata sia stata di proprietà della Società St. Jean-Baptiste, che in effetti ha venduto terreni esclusivamente ai cattolici.

A questo punto immaginiamo di appartenere al restante 9% circa dei protestanti di lingua inglese, oppure di essere uno dei 100.000 Ebrei che vivono a Montreal e dintorni: all’atto della fondazione dello Stato del Québec siamo diventati cittadini, ma godiamo di pochi dei privilegi che hanno i cattolici. Oppure immaginiamo di essere un immigrato greco ortodosso e di voler ottenere la cittadinanza.

In ogni caso, risolveremmo di doverci convertire al cattolicesimo per migliorare la nostra condizione. Storicamente, la conversione era di competenza esclusiva delle arcidiocesi ultramontane di Montreal e Québec City; immaginiamo, infine, che in seguito ad anni di discussioni la Corte Suprema del Québec abbia deciso che anche i sacerdoti gesuiti relativamente liberali, o i teologi della liberazione ispirati al Vaticano II, possono convertire le persone al cattolicesimo, indipendentemente da quello che fanno le arcidiocesi.

Tale decisione da parte della corte sarebbe sufficiente a dimostrare che questo Québec è più ‘democratico’? Davvero ci aspetteremmo che il Québec Democracy Institute, in apparenza fondato per promuovere le norme democratiche, lodasse questa decisione, oppure che i fautori delle libertà civili della Harvard Law School la chiamassero ‘coraggiosa e ugualitaria’?

Ovviamente, lo Stato in questione non è un immaginario Québec, ma il reale Stato di Israele.

Edificio del Gran Rabbinato di Gerusalemme. Lior MIrachi

Il vero Québec, dove sono nato, ha abolito le scuole pubbliche confessionali nel 2000; al giorno d’oggi chi lavora nel servizio civile del paese non può indossare alcun segno evidente di appartenenza religiosa, crocifisso compreso.

Gli Israeliani, invece, dal 1949 vivono in un contesto giuridico assurdamente teocratico, detto per eufemismo ‘status quo’, che include la Legge del Ritorno, implicante una definizione giuridica di ‘ebreo’ che consente di determinare chi possa ottenere in automatico la cittadinanza.

Proprio così. Il primo marzo la Corte suprema israeliana ha stabilito che, al posto del monopolio del rabbinato ortodosso in merito alle conversioni, ai fini del conseguimento della cittadinanza hanno valore anche le conversioni non ortodosse di coloro che risiedono ufficialmente in Israele. Ma la Legge del Ritorno dovrebbe essere considerata più ‘democratica’ per il semplice fatto che adesso rabbini più liberali figurano fra coloro che intervengono nei procedimenti giudiziari, i quali restano sempre così palesemente discriminatori?

Ci sono questioni ancora più ovvie. Nei suoi atti costitutivi Israele è «ebreo e democratico». Se ciò significa che una maggioranza ebraica fa quello che vuole, allora la parte democratica si è persa per strada.

Ormai, e senza ombra di dubbio, uno Stato ebraico e democratico dovrebbe avere una legge riformata sull’immigrazione – la quale potrebbe benissimo favorire rifugiati in fuga dall’antisemitismo ma senza pretendere che, per ottenere la cittadinanza israeliana, tutti gli immigrati si debbano sottoporre a un processo quinquennale, per così dire, di naturalizzazione alla cultura ebraica.

Un immigrato ebreo, appena giunto dal Nord America con la famiglia, bacia l’asfalto all’arrivo all’aeroporto internazionale Ben Gurion vicino a Tel Aviv. AFP

Se la Knesset capovolge la sentenza della Corte che amplia lievemente la cerchia degli Ebrei ‘legittimi’ che possono qualificarsi per la cittadinanza – cosa che potrebbe essere considerata un’imposizione dell’apparente volontà della maggioranza – davvero questo gioco di potere dovrebbe costituire il problema critico e urgente degli attivisti democratici oppure il più fondamentale, benché scomodo, criterio della stessa ebraicità?

Purtroppo queste riserve non sembrano venire in mente a coloro che dovrebbero saperne di più. Merav Michaeli ha semplicemente elogiato la decisione della Corte: il suo partito laburista, ha detto, «continuerà le battaglie per una società pluralista e ugualitaria, che riconosca tutte le correnti del giudaismo». L’Israel Democracy Institute ha considerato la decisione una decisione storica.

Nel suo articolo su Bloomberg, il professore di diritto costituzionale di Harvard Noah Feldman sembra altrettanto entusiasta. La Legge del Ritorno, scrive, è «fondamentale per il concetto che Israele ha di sé come stato democratico ebraico». E ancora: «l’audacia della sentenza sostiene l’egalitarismo intra-ebraico».

In che modo questo egalitarismo, o peraltro la Legge del Ritorno, contribuisce a rendere Israele più democratico? Né il politico né l’Istituto né il professore di legge paiono sentire la necessità di un chiarimento. Dopo aver fornito al verdetto la sua difesa più elaborata, Feldman osserva che la Legge del Ritorno «stabilisce il principio secondo cui gli Ebrei possono diventare cittadini di Israele semplicemente presentandosi».

Ma se un ebreo di Montreal che frequenta la sinagoga o un discendente secolare e assimilato di Ebrei di Kiev si presentassero – senza alcuna conoscenza dell’ebraico o anche senza sapere dove si trovi Afula – all’aeroporto Ben-Gurion e, potendo dimostrare la nascita da una madre ebrea e la fede in «nessun’altra religione», diventassero automaticamente cittadini, la parola ‘democratico’ non mi verrebbe proprio in mente – e soprattutto non a proposito di un paese in cui il 20% della popolazione non è ebreo e non gode di tale diritto.

Un manifestante fa segno di vittoria con una bandiera palestinese davanti al Tribunale distrettuale di Haifa durante una protesta di Arabi israeliani contro la violenza di cui è vittima la loro comunità e contro l’aggressione della polizia di quest’anno. AHMAD GHARABLI – AFP

Risparmiatemi ogni lezione sull’urgenza della necessità di fornire rifugio agli Ebrei dopo l’Olocausto o quella relativa ad analoghi test di nazionalità in luoghi come l’Ungheria; il 1950 non è il 2021 e gli Ebrei di Montreal, a cui il Québec immaginario di cui sopra avrebbe negato i diritti democratici ordinari, non sarebbero impressionati dall’esempio di Viktor Orban.

I paesi democratici degni di questo nome non presumono di imporre una religione o una discendenza di sangue ai cittadini né, soprattutto, di escludere gli immigrati per tali motivi. Coltivano piuttosto una cultura nazionale inclusiva.

Ovviamente a disagio su questo aspetto della sua argomentazione, Feldman insiste sulla «straordinaria complessità che comporta la definizione di ebraicità ai fini dell’impresa sionista». Ma Israele è tutt’ora un esperimento ideologico, il cui evidente obiettivo è quello di accendere la fantasia di potenziali adepti tra gli Ebrei della diaspora, o è piuttosto uno Stato con nove milioni di cittadini e un PIL di 330 miliardi di dollari?

A suo merito, Feldman riconosce che «alcuni dei primi sionisti» supponevano che uno Stato nazionale «avrebbe trasformato l’ebraicità da religione in identità nazionale» – come in realtà avvenne nel caso di tutti i primi pensatori e politici sionisti, da Weizmann a Jabotinsky.

Eppure, aggiunge, l’identità nazionale ebraica – degli Israeliani, ebrei e non ebrei che vivono in una repubblica democratica di lingua ebraica – non si è realizzata. Perché? Perché «la religione ebraica e l’identità religiosa si sono ostinatamente rifiutate di morire». In effetti, l’ebraicità in Israele è diventata ancora più ‘complessa’: adesso è «un’identità religiosa, un’identità etnica e un’identità nazionale al contempo».

Questo è troppo. Per alcuni sedicenti democratici israeliani, un comodo miscuglio di devozione, origini e nazionalità può apparire più o meno ragionevole, secondo i consueti principi della vita pubblica. Ma moltissimi altri democratici israeliani si sentono all’interno di una guerra culturale.

Bambini israeliani giocano con la schiuma spray durante le celebrazioni per il Giorno dell’Indipendenza di Israele a Tel Aviv. Reuters

Grazie al successo del sionismo storico, infatti, l’attuale maggioranza della popolazione conduce una vita secolare pervasa dagli infiniti prodotti della cultura ebraica, e tenta di allontanare i rabbini sponsorizzati dallo Stato dalle scuole, dalle camere da letto, dalle udienze sull’immigrazione, dagli orari degli autobus. Il suo secolarismo non estingue il giudaismo, non perché questo «si rifiuta di morire» ma perché la cultura ebraica lo alimenta.

Tutte le correnti della tradizione religiosa ebraica prospererebbero come comunità e congregazioni volontarie in uno Stato israeliano secolare, proprio come avviene nella comunità del Massachusetts di Feldman dove, nonostante la separazione tra religione e Stato sia scontata, le correnti religiose sembrano cavarsela bene.

La recente decisione della Corte Suprema può migliorare la vita dei singoli immigrati, cosa che conforta. Ma l’uguaglianza rabbinica, anche se fosse meno superficiale, non andrebbe confusa con il progresso democratico.

I democratici israeliani, ebrei e arabi, non hanno bisogno di una versione riformata o conservatrice della conversione, per quanto ciò stia bene agli Ebrei statunitensi. Hanno bisogno che sia abrogata una legge anacronistica sull’immigrazione, hanno bisogno di una Carta dei Diritti che garantisca una versione secolare della cittadinanza israeliana. E hanno bisogno, fra tutti, di costituzionalisti ebrei americani alle spalle.

Bernard Avishai insegna Economia alla Hebrew University ed Economia politica al Dartmouth College. È autore, fra l’altro, di The Hebrew Republic; scrive regolarmente per «The New Yorker».  Twitter: @bavishai

https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-why-american-jews-should-reject-israel-s-law-of-return-1.9619845

Traduzione di Cristina Alziati – AssoPacePalestina

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