Immigrare in Israele mi ha fatto abbandonare l’ebraismo

Mar 5, 2021 | Riflessioni

Jotam Confino,

Haaretz, 28 febbraio 2021.

Mio padre è un veterano dell’esercito israeliano. I miei nonni hanno fondato un kibbutz. Pur crescendo in Danimarca davo per scontato il fatto di essere ebreo. Ma sperimentare di persona l’umiliante e razzista processo di immigrazione in Israele ha cambiato tutto.

Crescendo in Danimarca ed essendo figlio di un veterano dell’IDF e nipote di pionieri dei kibbutz davo per scontato il fatto di essere ebreo. Ma la mia esperienza dell’umiliante processo di immigrazione in Israele ha cambiato tutto. AFP

Sono passati tre anni da quando sono arrivato in Israele, da quel giorno in cui ho intrapreso il viaggio che mi avrebbe portato a scoprire le mie radici e a vivere e lavorare nel paese in cui sono nato. Ma un processo di immigrazione umiliante e le continue domande riguardanti il mio vissuto, mi hanno fatto sentire sempre meno ebreo. E infatti adesso non mi sento affatto ebreo.

Sono il frutto di una tipica storia d’amore nata in un kibbutz alla fine degli anni ’80. Mia mamma, danese, lavorava come volontaria nel kibbutz fondato dai miei nonni paterni e lì ha conosciuto mio padre, israeliano. Ma il trauma provocato dalla guerra del Libano del 1982 ha spinto lui a convincere mia mamma a partire per la Danimarca per risparmiare ai suoi figli quegli orrori che lui aveva vissuto.

Così, sei mesi dopo la mia nascita nella cittadina di Hadera, ci trasferimmo in Danimarca. A quel tempo non si poteva avere la doppia nazionalità, per cui i miei genitori rinunciarono ai loro passaporti israeliani in cambio della cittadinanza danese.

Nel 2017 decisi di tornare in Israele per riavere la cittadinanza israeliana, scoprire le mie radici e lavorare come giornalista nel cuore del Medio Oriente. Sono nato in Israele; mio padre era israeliano e veterano dell’IDF (esercito israeliano); i miei nonni erano israeliani e tra i primi pionieri del kibbutz, erano dei “kibbutznik”. Avevo uno status particolare di “katin chozer”, un minore che torna, il figlio di un cittadino israeliano. Immaginavo che riavere il mio passaporto israeliano sarebbe stata una pratica semplice.

Ma il potere che hanno in Israele le istituzioni religiose mi avrebbe dimostrato di lì a poco che mi sbagliavo.

Il primo grosso ostacolo si presentò quando, come parte del processo di immigrazione, avrei avuto bisogno di una lettera firmata dal rabbino del luogo in cui vivevo in Danimarca, una lettera che “convalidasse” il mio essere ebreo. Un’altra pura formalità pensai tra me. Ma mi sbagliavo di grosso.

“Tua madre è ebrea?” mi chiese il rabbino.

“No, ma….” iniziai a rispondere.

“Allora non posso aiutarti. Tu non sei ebreo. E siccome non ti conosco, perché non sei un membro della comunità ebraica in Danimarca, non posso garantire per te”, mi interruppe, mettendo fine alla conversazione.

Ricordare quell’incidente mi manda ancora oggi su tutte le furie, esattamente come quel giorno. Ero sconvolto. Ma feci un respiro profondo e chiesi a mio padre di chiamare il rabbino per chiarire la cosa. Sicuramente avrebbe creduto a mio padre nel momento in cui lui gli avrebbe raccontato la sua storia, parlando oltretutto in ebraico.

Ma il rabbino disse a mio padre che lui non aveva idea se fosse o no ebreo. La logica del rabbino e, per estensione, anche quella dello stato di Israele era che solo un certificato di matrimonio con la firma di un rabbino sarebbe stata una prova in una situazione come quella. O anche un documento simile ma sempre con la firma di un rabbino.

Secondo loro il fatto che la mia famiglia fosse israeliana da tre generazioni non era abbastanza. Tutto si riduce a questo: sapere se tua madre è ebrea o se possiedi un documento religioso che prova che tu sei ebreo.

Il fatto che la mia famiglia fosse israeliana da tre generazioni non era sufficiente per l’onnipotente rabbinato israeliano e quindi per lo stato di Israele. Yonit Schiller

Alla fine mio padre trovò un rabbino legato al kibbutz dei suoi genitori in grado di “verificare” e dire sì, la famiglia Confino è ebrea. Solo allora l’arrogante, ipocrita rabbino di Copenhagen ci consegnò la lettera di cui avevo bisogno per riavere la mia cittadinanza.

E questo non gli impedì di concludere la lettera indirizzata al ministero dell’interno israeliano con queste parole: “non conosco Amatzia Confino” (mio padre). Quest’ultimo commento non avrebbe potuto essere interpretato se non come un messaggio in cui lui sottolineava di non essere disposto a garantire per questo giovane “mezzo ebreo” che non aveva una connessione con la comunità ebraica.

L’intero processo di immigrazione mi ha fatto capire quanto l’identità israeliana sia subordinata al fatto di essere ebreo e a esserlo in un modo specifico, invadente e tendente ad escludere, come ho sperimentato più e più volte da quando sono venuto in Israele.

Come giornalista che segue gli eventi in Israele, ho perso il conto di quante volte mi è stato chiesto, sia in modo aggressivo che educato, se sono ebreo oppure no. E il tutto nei primi 30 secondi di una conversazione, nella mia vita privata e sul lavoro. Sembra che gli ebrei israeliani, in generale, debbano classificarmi: come loro/non come loro, uno di loro/non uno di loro.

E la stessa cosa capita nella sfera sentimentale: alcune donne israeliane mai si sognerebbero di mettersi con un “mezzo ebreo” come me e le ragazze non ebree con cui ho avuto una relazione in Israele sono state lasciate da ragazzi israeliani per le stesse identiche ragioni.

Trovo la cosa incredibilmente razzista, ma ho ottimi amici che non la considerano affatto tale. È una questione di tradizione, dicono. E non è una cosa del passato: è l’atteggiamento prevalente nella maggior parte dei giovani israeliani che ho conosciuto.

Con un discorso politico che pare non faccia altro che rinforzare questa ossessione di essere completamente ebreo e con una legge sullo stato-nazione che chiarisce molto bene a chi appartiene lo stato di Israele, si capisce perfettamente perché Israele si stia dirigendo verso un abisso di razzismo dove solo gli ebrei etnicamente puri fanno totalmente parte della società. Io non considero l’ebraismo un’etnia ma una religione, ma da quando quelli che sono al potere reputano gli ebrei una razza, la loro ossessione per la purezza diventa razzista quando si mettono a legiferare partendo da questo punto di vista.

Il miglior esempio che illustra il razzismo percepito da quelli come me, è il controllo esercitato dal Gran Rabbinato sui matrimoni e sui divorzi. Non ci sono matrimoni civili in Israele. Solo gli “ebrei puri” (quelli cioè che hanno una madre ebrea) possono sposarsi in Israele, con l’ovvia conseguenza che migliaia di “mezzi ebrei” israeliani devono andare all’estero per potersi sposare.

L’ossessione del Grande Rabbinato di Israele sulla purezza etnica e religiosa fa sì che un “mezzo ebreo” come me si chieda cosa significhi veramente essere ebreo. Lior Mlrachi

E siccome gli ebrei ultra-Ortodossi hanno il potere su una delle più centrali e importanti istituzioni e considerano gli ebrei una razza, gli esclusi, come me, vengono trattati in modo diverso. Capita ai tanti russi “mezzi ebrei” che vivono in Israele e a tutti quegli israeliani che hanno un padre ebreo e una madre non ebrea. Così si spiega il fenomeno di migliaia di ebrei israeliani che ogni anno vanno a sposarsi all’estero.

Questo porta un “mezzo ebreo” come me a chiedersi: cosa significa veramente essere ebreo? Non credo in Dio e non festeggio molte delle festività ebraiche. Certamente non rispetto le norme kosher o lo Shabbat e non ritengo che criticare lo stato di Israele coincida con l’antisemitismo. E penso anche che la circoncisione dei bambini non dovrebbe essere permessa. È una tradizione medievale, superata, che se va a finir male, come succede a volte, segna un uomo per il resto della vita.

Le cose che ho elencato non sono assolutamente delle critiche rivolte ai molti israeliani laici che condividono le mie opinioni ma si identificano come ebrei. È solo una constatazione del fatto che io non approvo e non mi attengo ai più fondamentali valori ebraici così come alle tradizioni culturali per cui non vedo il motivo di dovermi identificare come ebreo.

So perfettamente che Israele non ha il monopolio sull’ebraismo, anzi la maggior parte degli ebrei vive all’estero, libera di identificarsi con la propria ebraicità nel modo che preferisce. Nessuno di loro è subordinato all’autorità dei fanatici tribunali rabbinici come invece accade in Israele.

Ma dovunque io mi trovi, nel mondo ebraico, non posso evitare la sensazione di essere sottoposto ad un’attenta analisi intesa a scoprire quanto io sia veramente ebreo o, quando mi viene chiesto se mia mamma è ebrea, quanto io sia un “non-ebreo”.

È una domanda che mi è stata fatta dagli ebrei nei miei due paesi d’origine, Danimarca e Israele, e dagli ebrei che ho incontrato viaggiando all’estero. È sempre difficile riuscire a capire se è una domanda dettata dalla curiosità o dal voler verificare se sono “uno di loro”. In ogni caso l’ho sempre considerato un espediente molto antipatico per iniziare una conversazione con qualcuno che ho appena incontrato.

Mi considero un israeliano (danese), ma laico. In tutta la mia vita ho dato per scontato di essere ebreo per il fatto che lo è mio padre e per il luogo dove sono nato. E non mi sono mai fermato a pensare cosa in realtà significasse per me. Era solo un’etichetta (non negativa) attaccata alla mia nazionalità danese.

Essere un israeliano, secondo me, significa credere in uno stato di Israele inteso come un posto dove gli ebrei hanno il diritto di vivere ma dove vengono offerti uguali diritti a tutti i cittadini. Religiosi, non religiosi, arabi, mezzi-ebrei. Dove se hai radici ebraiche sei esattamente come qualunque ebreo che si trasferisce in Israele. Il processo di immigrazione può avermi fatto perdere la fede nell’ebraismo e l’identità ebraica, ma ha rafforzato la mia convinzione su ciò che dovrebbe essere l’israelianità.

Jotam Confino è un “web editor” che lavora a Haaretz e si è occupato di Medio Oriente come giornalista per testate danesi, turche e statunitensi. Ha conseguito un B.A (Bachelor of Arts) in Relazioni Internazionali e un M.A. (Master of Arts) in Sicurezza e Diplomazia all’Università di Tel Aviv. Twitter: @mrconfino

https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-immigrating-to-israel-made-me-renounce-judaism-1.9575695

Traduzione di Alice Censi – AssopacePalestina

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