Il silenzio dei media complici dell’occupazione

Feb 16, 2021 | Riflessioni

di: Amira Hass,

Haaretz, 8 febbraio 2021. 

Sia i media cartacei che quelli elettronici supportano ormai più o meno apertamente l’ipotesi di rinchiudere i Palestinesi all’interno di bantustan, così da poter annettere la maggior parte della Cisgiordania e permettere agli Israeliani di acquistare a poco prezzo quei terreni.

Demolizione di case palestinesi nel villaggio di Yatta, in Cisgiordania. Il silenzio dei media contribuisce alla normalizzazione delle espulsioni eseguite dall’esercito, dalla Civil Administration, dalle autorità municipali di Gerusalemme e dal Ministero dell’Interno. (Anadolu Agency)

Il 26 maggio 1838, quale giornale di New York segnalò l’inizio dell’espulsione di migliaia di membri della nazione Cherokee da parte di 7.000 soldati statunitensi, secondo il Native American Removal Act, firmato dal Presidente Andrew Jackson? Cosa riportarono i giornali di Johannesburg il 10 febbraio 1955, il giorno dopo che 2.000 agenti di polizia in assetto da guerra avevano espulso le famiglie nere dalle loro case nel quartiere di Sophiatown? Quanti si accontentarono di precisare che l’espulsione era stata portata avanti come previsto dal Group Areas Act?

Lascio ad altri la risposta a queste domande e voglio invece porne oggi una diversa: quali e quanti media israeliani in lingua ebraica hanno riportato il fatto che due settimane fa la Civil Administration  [l’organismo israeliano che governa di fatto la Cisgiordania] ha chiesto ai membri della comunità Khirbet Humsa, nel nord della Valle del Giordano, di abbandonare “volontariamente” l’area in cui hanno vissuto per decenni per poi demolire le loro capanne, fattorie e tutto ciò che possedevano? La risposta è semplice: la rivista online Siha Mekomit (omologa ebraica del sito inglese +972) e Haaretz.

La stampa israeliana, sia tradizionale che elettronica, è bravissima a riportare gli scandali interni alla società palestinese, a mettere in guardia contro i Palestinesi armati prima e dopo il loro arresto e a segnalare tutti coloro che oltrepassano la barriera di separazione con il solo scopo di cercare una vita migliore dall’altra parte del muro. Eppure questa volta è rimasta in silenzio. Così come solitamente accade di fronte agli inumani divieti alle costruzioni e allo sviluppo imposti da Israele  nei confronti dei Palestinesi, nonché alle fin troppo frequenti demolizioni e confische di terreni.

Rispetto al passato, oggi abbiamo WhatsApp, ci sono i droni e soprattutto esiste Internet, che permette di riportare in tempo reale quanto accade. I giornalisti israeliani, a differenza dei loro colleghi in Russia, Cina e –all’epoca– in Sudafrica, non sono oggi a rischio di arresto e persecuzione da parte delle autorità. Eppure i media in lingua ebraica rimangono in silenzio perché scelgono di accettare la menzogna ufficiale, ovvero che operazioni come quella di Khirbet Humsa siano atti legittimi. Il loro silenzio contribuisce a normalizzare la lenta, ma costante deportazione perpetrata dalle forze di difesa israeliane, dalla Civil Administration, dalle autorità municipali di Gerusalemme e dal Ministero dell’Interno contro i Palestinesi.

In tutti questi casi i media sono asserviti al grande piano del governo israeliano: ammassare i Palestinesi all’interno di “bantustan” così che la maggior parte della Cisgiordania venga annessa a Israele e i suoi cittadini abbiano la possibilità di acquistarne i terreni a basso costo. Questo silenzio oscilla tra la codardia e l’aperto sostegno ai crimini di stato e ai benefici materiali che essi recano in dote.

Una donna legge il giornale a Tel Aviv. (JACK GUEZ – AFP)

Le esercitazioni militari da parte delle IDF [Israel Defense Forces, l’esercito israeliano] sulle terre appartenenti ai villaggi di Jinba, Mirkez, Bir Al-Eid e Tawamin fanno parte di questo grande piano per creare uno “spazio libero” –come viene definito dal South Hebron Hills Regional Settlements Council– che in realtà vuol dire uno “spazio libero dagli Arabi”. Anche in merito a questo i giornalisti israeliani sono rimasti in silenzio.

È pur vero che ci sono delle differenze tra le violazioni che avvengono qui e quelle accennate all’inizio: gli atti criminali compiuti dagli Stati Uniti sono stati commessi prima dell’esistenza di convenzioni internazionali che sancissero ciò che oggi è considerato ovvio: cioè che l’espulsione, la colonizzazione e l’apartheid sono crimini. Sono stati l’African National Congress e l’International Solidarity Movement a non permettere che i crimini di Pretoria venissero rimossi dall’agenda pubblica.

Contrariamente a Jackson e ai vari primi ministri Afrikaner – Daniel Malan, Hans Strijdom e Hendrik Verwoerd – i governi israeliani di Benjamin Netanyahu e dei suoi predecessori (inclusi Shimon Peres e Yitzhak Rabin) hanno portato avanti dal 1967 una politica di graduale espulsione dei Palestinesi (a differenza delle espulsioni di massa del 1948-1952). Neppure Haaretz e Siha Mekomit tengono traccia della demolizione di ogni singola casa palestinese.

Le espulsioni israeliane di oggi non sono sanguinarie come le campagne per sradicare le popolazioni native degli Stati Uniti del 19esimo secolo, né evidenti come i fatti di Johannesburg, ma non di meno sono molto efficaci. Il numero di Palestinesi che vivono nelle comunità della Valle del Giordano e nei villaggi di Masafer Yatta (un cluster di villaggi palestinesi nel sud-est della Cisgiordania) è ancora molto basso, nonostante il tasso naturale di crescita della popolazione e le potenzialità agricole del territorio. Sono poche infatti le persone che riescono a vivere sotto la continua minaccia di ordini di demolizione, o che riescono a tollerare l’eterna caccia di Israele contro ogni sorgente d’acqua, ogni ovile, ogni pannello solare installato da mano palestinese.

Noi vogliamo gridare ancora una volta che l’insidioso trasferimento verso i bantustan è stato reso possibile ed è tutt’oggi possibile dichiarando arbitrariamente zone di esercitazione militare, confiscando i possedimenti, costruendo insediamenti sulle terre dei Palestinesi che si trovavano all’estero nel 1967, vietando la costruzione di edifici palestinesi e demolendo sistematicamente le loro case, senza contare la crescente violenza dei residenti negli insediamenti israeliani (illegali per il diritto internazionale) che ricevono fondi in via ufficiale (o semi-ufficiale) per mettere radici ed espandersi. E ciò è possibile anche grazie all’opinione pubblica israeliana, la cui reazione varia tra l’indifferenza e l’accettazione entusiastica. Nessuno di questi episodi è da considerarsi isolato, sono tutti ingranaggi di una macchina criminale che ha come scopo lo sradicamento della popolazione palestinese.

Vogliamo ricordarlo ancora una volta: le deportazioni di massa, con l’uso di camion e baionette, sono state messe in atto tra il 1985 e la metà degli anni ’90 e poi ancora nel 1999 ai danni di una dozzina di villaggi e comunità. La resilienza delle comunità beduine e dei villaggi palestinesi, grazie anche alle associazioni per i diritti umani, gli avvocati israeliani e l’attivismo di sinistra, ha finora ostacolato il grande piano di espulsione e permesso ad alcune persone di ritornare alle terre su cui hanno vissuto per generazioni, sebbene alle famiglie di Susya non sia permesso tornare al sito originale del proprio villaggio.

I giudici della Corte Suprema –di cui ho già scritto ampiamente– dovranno decidere quest’anno se fare giustizia o soccombere alle pressioni della potente lobby immobiliare israeliana in merito alla deportazione di migliaia di Palestinesi del Masafer Yatta nella comunità di Yatta. In pratica, dovranno determinare se i Palestinesi abbiano il diritto di vivere e coltivare la propria terra o se siano invece costretti ad abbandonare il proprio territorio e i propri costumi.

Questo è un appello a tutti i paesi che ancora credono nel diritto internazionale: non aspettate la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia. Usate la vostra influenza per impedire la deportazione dei Palestinesi in sovraffollati bantustan – anche se i giudici Israeliani dovessero approvarla.

https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-the-silence-of-the-israeli-media-s-occupation-lambs-1.9520783

Traduzione di Matteo Cesari – AssopacePalestina

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