Cosa sta succedendo in Israele: la questione vaccini

Feb 21, 2021 | Notizie

di: Francesca Merz,

 Penshare, febbraio 2021.   

Israele continua a guidare le classifiche come Paese con il più alto numero di vaccini già somministrati. Risultano infatti già vaccinati oltre il 20% dei suoi circa 9 milioni di abitanti. Allo stesso tempo, però, Israele non ha fornito le dosi di vaccino ai territori occupati, rischiando di scatenare un ennesimo conflitto.

La campagna di vaccini in Israele

Lo Stato Ebraico ha l’obiettivo – e sembra sulla giusta strada per conseguirlo – di immunizzare tutti coloro che hanno più di 16 anni entro la fine di marzo.

Tra le ragioni del successo c’è un dato molto semplice: Israele è riuscito ad avere prima degli altri le dosi del vaccino prodotto da Pfizer/BioNTech. A queste si aggiungono anche quelle di Moderna e AstraZeneca, garantendo l’acquisto ad un prezzo più alto rispetto agli altri Paesi. Il governo israeliano, secondo quanto riportato da Dana Regev e dal Guardian, avrebbe pagato circa 60 dollari per ogni dose, a fronte dei 19 dollari spesi dagli USA e dei 13 spesi dai paesi europei.

Inoltre, come indica il Reuters in un recente articolo, lo stesso premier Netanyahu avrebbe promesso alle aziende farmaceutiche l’invio dei dati sanitari dei cittadini in cambio di 10 milioni di dosi. In particolare, Israele si è impegnato a condividere età, genere, stato di salute e anamnesi delle persone a cui è somministrato il vaccino.

L’esclusione dei palestinesi

In questa campagna, la cui celerità ha incontrato l’ammirazione del mondo intero, vi sono però alcuni lati oscuri, a cui cercare di dare luce. La campagna vaccinale israeliana ha coinvolto anche i palestinesi considerati “residenti permanenti” di Gerusalemme Est, ovvero privi della cittadinanza dello Stato ebraico, ed i coloni israeliani che vivono negli insediamenti illegali in Cisgiordania, ma ha escluso gli oltre 5 milioni di palestinesi della West Bank e della Striscia di Gaza. Questa situazione ha acceso un dibattito, in relazione ai doveri, legali e morali, di una potenza occupante rispetto ad un paese occupato. Cerchiamo di fare chiarezza.

Ambito sanitario: chi se ne occupa?

Le autorità israeliane affermano di non avere alcuna responsabilità nei confronti dei palestinesi, appellandosi agli Accordi di Oslo, firmati tra il 1993 e il 1995. Secondo questi, veniva assegnato all’ANP (Autorità Nazionale Palestinese, con sede a Ramallah) la responsabilità in ambito sanitario. Gli Accordi di Oslo, però, benché firmati, non sono mai stati realmente portati a termine. Proprio quegli accordi avrebbero dovuto portare alla costituzione di due stati, e prevedevano il ritiro dell’esercito israeliano da gran parte dell’attuale Cisgiordania.

Viene dunque da domandarsi in quali settori specifici quegli accordi siano validi secondo lo Stato Ebraico, e in quali non lo siano. Senza addentrarci nella spinosissima politica economica sancita nel post Oslo, in particolare dal protocollo di Parigi, conviene in questa sede segnalare come Israele eserciti tuttora un ampio controllo sugli spostamenti di merci e persone all’interno del territorio della Cisgiordania (controllo che avrebbe dovuto andare a scemare in ottemperanza agli Accordi di Oslo). Lo Stato ebraico controlla anche i valichi di frontiera di Gaza, sottoponendo la Striscia ad un embargo stringente. Proprio questo controllo non permette alcuna autonomia sanitaria, né il transito di medicinali né una corretta possibilità di assistenza sanitaria.

Gli accordi di Oslo

Dana Moss, una coordinatrice internazionale dell’associazione no-profit israeliana Physicians for Human Rights Israel – Medici per i Diritti Umani –  ha dichiarato a Insider: “Gli Accordi di Oslo hanno trasferito tecnicamente la responsabilità del sistema sanitario all’Autorità Palestinese. Quella parte è vera. Ma l’ampiezza del controllo israeliano sulla Cisgiordania e Gaza ha essenzialmente svuotato di qualsiasi significato questa responsabilità“.
Moss ha continuato: “Il controllo israeliano sulla circolazione di persone e merci significa che i pazienti non possono passare dalla Cisgiordania a Gerusalemme Est senza i permessi israeliani. Neanche i farmaci e le attrezzature possono passare“.

A ben vedere, se gli accordi di Oslo fossero stati rispettati, non avrebbero dovuto più esserci le pesanti frammentazioni in zona A-B-C. Invece, a pesare sulle capacità di risposta di Ramallah, sono proprio le sue ridotte capacità finanziarie e la mancanza di un controllo reale ed omogeneo sul territorio palestinese. Territorio diviso proprio da quegli Accordi di Oslo mai ottemperati fino in fondo dallo Stato Ebraico, in tre diverse zone a cui corrisponde un differente grado di controllo da parte di ANP e Israele.

Una potenza occupante

Il quadro normativo di riferimento, dunque, non può essere quello degli accordi di Oslo. Israele, secondo l’ONU, l’Unione Europea (UE) e secondo la stessa Corte suprema israeliana è considerato una potenza occupante. La corte emana e mette in atto giornalmente ordinanze militari e considera Israele come avente obblighi nei confronti della popolazione dei Territori occupati. Sulla base dell’art. 56 della Convenzione di Ginevra, quindi,  Israele ha il dovere di fornire i vaccini anche ai palestinesi di Gaza e Cisgiordania.

Rileggiamo l’articolo 56 : “La Potenza occupante ha il dovere di assicurare e mantenere, con la collaborazione delle autorità nazionali e locali, le strutture e i servizi medico-ospedalieri, la sanità pubblica e l’igiene nel territorio occupato, con particolare riferimento all’adozione e all’applicazione delle misure profilattiche e preventive necessarie per combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie”. Questa, si sostiene, è la base legale per la responsabilità di Israele nell’aiutare coloro che si trovano in territorio occupato a combattere il coronavirus.

Secondo una terza lettura del diritto internazionale e degli Accordi di Oslo, Israele e ANP dovrebbero invece collaborare per far fronte alla pandemia. Ramallah ha approvato la somministrazione del vaccino di produzione russa e sarebbe anche in trattativa con AstraZeneca per l’invio di circa 2 milioni di vaccini. In entrambi i casi, i tempi di consegna saranno lunghi, per cui la campagna vaccinale non potrebbe iniziare prima della primavera. L’ANP sta attualmente anche facendo affidamento sul COVAX, il programma dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) a sostegno dei Paesi più poveri. Il COVAX dovrebbe assicurare il vaccino al 20% della popolazione della Cisgiordania. Anche in questo caso, le prime spedizioni sono previste non prima di marzo, secondo The Guardian e Wall Street Journal.

La richiesta dei vaccini ad Israele

Nel frattempo, a causa delle informazioni frammentarie e delle continue contraddizioni, non è chiaro se l’Autorità Palestinese abbia chiesto direttamente a Israele di sostenere una campagna di vaccinazione in Cisgiordania e Gaza.
Dapprima due funzionari palestinesi avevano dichiarato al New York Times che l’ANP aveva chiesto a Israele fino a 10.000 dosi per vaccinare gli operatori sanitari. Inoltre, un ministro dell’Autorità Palestinese aveva confermato dicendo al giornale che Israele aveva rifiutato questa richiesta. Successivamente, un alto funzionario palestinese ha dichiarato al Wall Street Journal che l’Autorità Palestinese non aveva in realtà mai chiesto a Israele i vaccini. Israele, secondo l’emittente israeliana Kan, avrebbe fornito ai palestinesi diverse dozzine di dosi di vaccini. Ciò è stato fatto in segreto e per “speciali ragioni umanitarie”.

È notizia del 17 febbraio l’autorizzazione da parte di Israele dell’ingresso immediato a Gaza di 1.000 dosi di vaccino Sputnik provenienti dal ministero della sanità di Ramallah, le prime dall’inizio della pandemia. Saranno destinate prima di tutto allo staff medico. L’agenzia di stampa palestinese Maan rileva che inizialmente l’ANP aveva chiesto ad Israele di autorizzare il trasferimento di 2.000 dosi, ricevute nei giorni scorsi dalla Russia. Ancora non è chiaro se un nuovo trasferimento di vaccini sia previsto nel prossimo futuro.

Risulta abbastanza chiaro che, al netto delle ragioni legali o etiche, il ritardo nell’immunizzazione della popolazione della Cisgiordania non sia un problema solo per Ramallah. Circa 100 mila palestinesi lavorano in Israele e nelle colonie e l’economia israeliana dipende dalla loro manodopera. Esiste poi, secondo alcune organizzazioni, una questione etica preponderante.

Le dichiarazioni dei civili

Il mese scorso, dieci organizzazioni israeliane, palestinesi e internazionali per i diritti umani hanno richiesto alle autorità israeliane di fornire dosi del vaccino ai residenti nei territori palestinesi. In una dichiarazione congiunta, hanno scritto: “Chiediamo alle opportune parti internazionali interessate di sollecitare Israele ad adempiere ai suoi doveri e responsabilità morali per assistere i sistemi sanitari palestinesi e i palestinesi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania”. Amnesty International ha pubblicato una lettera in cui sostiene che Israele, negando i vaccini per il Covid- 19 ai palestinesi, stia compiendo un atto discriminatorio.
Duecento rabbini hanno firmato una petizione per chiedere al governo israeliano di accelerare la distribuzione di vaccini ai palestinesi in Cisgiordania e Gaza.

La rabbina Laura Janner-Klausner, dal Regno Unito, ha spiegato a Insider:
“Quando inizi a tirare fuori gli accordi di Oslo per giustificare qualcosa che non è morale, allora è molto preoccupante” ha detto. “È giusto che Israele, che è la potenza militare dominante, si prenda cura dei più vulnerabili nella società palestinese proprio come fanno con gli ebrei lì”

La petizione “Goldin”

È inoltre notizia di martedì 16 febbraio che Israele tiene ancora ferme duemila dosi dello Sputnik russo destinate al personale sanitario di Gaza. Come riporta Il Manifesto “La ministra palestinese della salute Mai al Kaila” conferma che ieri le fiale sono state nuovamente bloccate ai valichi tra Israele e Gaza. La vicenda, secondo il deputato comunista israeliano, Ofer Cassif, potrebbe configurarsi come un “crimine di guerra“.

Il portale d’informazione Walla, uno dei più seguiti in Israele, ha portato all’attenzione il caso. Il ministro della difesa Benny Gantz e il capo di stato maggiore israeliano Aviv Kochavi hanno congelato la richiesta di invio a Gaza delle duemila fiale giunta dal ministero della sanità dell’ANP. Il motivo è la petizione presentata alla Corte suprema dalla famiglia di Hadar Goldin, un ufficiale israeliano caduto in combattimento a Gaza durante l’offensiva militare “Margine protettivo” del 2014. I suoi resti sono a Gaza e la famiglia chiede che vengano scambiati con il via libera alla consegna dei vaccini. La Corte ha respinto la petizione. Tuttavia, i partiti, non solo quelli di destra, si sono appropriati, anche per motivi elettorali, della condizione posta dai Goldin.

I vaccini di Israele in Cisgiordania

Bisogna tuttavia precisare, per quanto il dibattito dia speranza per l’acquisizione di una nuova consapevolezza in materia, di come la negazione dei diritti fondamentali di accesso alla salute, fosse in atto ben prima di questa emergenza, considerato l’embargo di Gaza, e la discrezionalità nel concedere o meno l’accesso a cure, da parte dello Stato Ebraico.

Inoltre, secondo il Los Angeles Times, centinaia di migliaia di coloni ebrei negli insediamenti in Cisgiordania hanno ricevuto i vaccini Pfizer/BioNTech. Questi insediamenti sono considerati illegali dalla comunità internazionale. La scorsa settimana, nel Regno Unito, l’Observer  ha pubblicato un contestato articolo sul tema. “Palestinesi esclusi dalla somministrazione del vaccino Covid israeliano mentre i vaccini vanno ai coloni“, il titolo e la scelta dell’immagine – la vaccinazione ad un uomo ebreo ortodosso – hanno indignato alcuni membri della comunità ebraica.

Il tema della campagna vaccinale israeliana è dunque l’ennesimo terreno di scontro legislativo ed etico; temiamo, come avvenuto nei decenni passati, che a pagarne il conto sarà una popolazione già stremata.

La stesura di questo articolo è stata realizzata da Francesca Merz.

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