Gli Israeliani che saccheggiano le olive palestinesi non sono miei fratelli

Nov 17, 2020 | Notizie, Riflessioni

di Michael Sfard

Haaretz, 24 ottobre 2020. 

Palestinesi che raccolgono le olive a Burin, Cisgiordania. (Ilan Assayag)


Negli anni recenti i gruppi per i diritti umani palestinesi e israeliani hanno fatto una sorprendente scoperta che potrebbe portarli un giorno al Premio Nobel per la fisica. I loro ricercatori hanno osservato che, oltre alla velocità della luce e alle leggi della gravità, la natura ci ha dato altre due costanti fisiche universali: la spregevole criminalità dei coloni israeliani, che aumenta nel periodo della raccolta delle olive, e la collaborazione da parte delle forze dell’ordine, che permettono
che ciò accada.

Il tempo può espandersi o restringersi, lo spazio può accrescersi o contrarsi, ma la velocità della luce rimarrà sempre 300.000 km al secondo. Non cambierà mai, così come non cambierà mai l’attività criminale dei coloni israeliani. Sia in tempo di trattative di pace o di manovre di annessione, in tempi normali o di epidemia, in periodi di crescita economica o di recessione, i furti di olive, gli abbattimenti di alberi e gli assalti ai raccoglitori di olive si ripetono immancabilmente.

Il soldato annoiato e il comandante che stancamente vagano tra i giovani che si ispirano al Ku Klux Klan e che, dalla cima della collina, lanciano pietre verso i raccoglitori di olive palestinesi, si fanno vivi ogni anno, con la precisione di un orologio atomico.

I ministri della difesa vanno e vengono, i comandanti della Divisione di Giudea e Samaria diventano generali, general maggiori e persino “primi ministri a turno“, ma i raccolti di olive continuano a tingersi di sangue. La dimostrazione di mollezza e indifferenza da parte dell’esercito, così come i premi conferiti dalle forze di sicurezza agli assalitori per le loro aggressioni contro i più deboli, sono regolari come il sorgere del sole ogni mattina: paramilitari, artiglieria e brigate di fanteria, si chiamino Givati, Golani, Nahal o Kfir.

Questo codice di comportamento si è tramandato da una coorte di arruolati a un’altra, mentre si raccontano storie di battaglie passate e si intonano canzoni blues di combattimento. Nel mezzo di un’emergenza economica e sanitaria, in una situazione caotica in cui nessuno sa quando riapriranno le scuole e potremo tornare a tagliarci i capelli, la violenza di questi coloni e il collaborazionismo da parte dell’esercito sono un’isola di stabilità ed una roccia di certezza in un’epoca di incertezze.

E così è con la raccolta delle olive di quest’anno, che è appena cominciata. Nei primi nove giorni, l’associazione israeliana per i diritti Yesh Din ha ricevuto notizia di oltre venti azioni di danneggiamento del raccolto.

In sette casi i coloni hanno violentemente attaccato coloro che raccoglievano le olive, in otto casi le olive sono state rubate. In nove casi, centinaia di olivi sono stati abbattuti ed in un caso un oliveto è stato incendiato. Ad Hawara e Na’alin le persone sono state picchiate; a Jab’a sono state fatte delle minacce, gli alberi sono stati tagliati e le olive rubate; ad Ein Yabrud le persone sono state assalite,
a Fara’ata e Burin persino rapinate.

Riprese video sono giunte agli attivisti per i diritti umani da tutta la Cisgiordania. Gli agricoltori hanno visto le loro proprietà saccheggiate, senza poter fare nulla per impedirlo. Sentirsi impotenti e dover guardare da lontano è umiliante, ma un scontro diretto con i vandali è anche peggiore.

Uno dei delinquenti ebrei ha detto ai proprietari terrieri palestinesi di Burqa, in un incidente riportato da Ohad Hemo su Channel 12 News: “Dio ci ha dato questa terra. Io sono il figlio di Dio e tu sei il mio servo”.

E tutto questo sta accadendo a meno di un’ora di auto dal centro di Israele, in luoghi dei quali gli Israeliani indifferenti preferiscono ignorare l’esistenza, posti di cui ha sentito parlare meno dell’1% della popolazione, ma dove i nostri migliori figli e figlie sono stati mandati per rafforzare il nostro controllo coloniale che dura ormai da più di cinquant’anni.

Il male ha le sue radici: la sua comparsa nasconde qualcosa di ben più profondo. I giovani ribollono d’odio al punto di dire a un povero Palestinese, abbastanza anziano da poter essere loro padre e che è andato lì per raccogliere le sue olive, che loro sono i figli di Dio, mentre lui è un loro servo. Ma non sono lupi solitari. Perché tutto questo accada, è necessario che i loro genitori, i rabbini, i leader politici e i mentori spirituali autorizzino questi comportamenti, o addirittura li dirigano. Ci vuole da un lato l’indottrinamento in un’ideologia vile, dall’altro un’intera comunità che la appoggi.

In realtà, ci vuole anche un intero villaggio per allevare un fascista razzista. Dietro ogni piromane ebreo mascherato c’è un intero villaggio di gente colpevole; dietro ogni sceriffo auto-designato che scaccia una famiglia dalla propria terra c’è la responsabilità di un’intera comunità. Ovviamente, non tutti sono così, ma molti lo sono. Anche dalla parte israeliana della Linea Verde odio e razzismo stanno crescendo, ma le montagne di Samaria, la Cisgiordania settentrionale e le colline di Binyamin ed Hebron nel centro e nel sud del paese sono dei veri e propri campi di addestramento per i crimini di odio.

Non fare agli altri ciò che non vuoi che venga fatto a te, diceva il saggio Hillel [un rabbino del I secolo a.C., NdT], ma ora la nazione sfregiata da persecuzione, discriminazione e genocidio è largamente divisa in due: quelli che appartengono ai circoli della provocazione, dell’ espropriazione e dell’umiliazione, e quelli ai quali non importa granché di quello che fanno i propri fratelli e sorelle.

Vorrei quindi dire ai gangster degli insediamenti: voi non siete miei fratelli. Potremmo al più condividere un passato comune, ma nel presente ho più in comune con le vittime che con voi, con Ibrahim del villaggio di Fara’ata, la cui terra è stata rubata dai coloni e il cui raccolto di olive viene saccheggiato anno dopo anno, o con Mohammed di Bil’in, che coraggiosamente è andato a difendere gli agricoltori di Hawara.

Non ho nulla in comune coi delinquenti degli avamposti e degli insediamenti; dunque non provate a mandarmi qualcuno del gruppo di riconciliazione Tzav Piyus a dirmi che prima dobbiamo far pace tra di noi.

Nessuna pace è possibile coi razzisti violenti che abusano dei deboli sotto la protezione dei fucili dell’esercito e, così facendo, insultano la memoria delle vittime dei pogrom e dell’Olocausto.
Nessun compromesso è possibile con coloro che derubano i deboli, sfruttano gli oppressi e odiano i propri vicini, così come venivano odiati i loro antenati, i loro padri e le loro madri.

Se fossi in voi, farei una seduta di shiva [periodo di lutto ebraico, NdT] per voi stessi, dato che ormai avete rinunciato all’essenza dell’ebraismo e profanato i suoi principi fondamentali. Tuttavia, sapendo che voi, probabilmente, credete che Israele, anche nel peccato, sia sempre Israele, vi parlerò in una lingua che capite: Pentitevi peccatori, pentitevi e vi abbracceremo. Sino ad allora, faremo come comanda la Torah: vi combatteremo.

Michael Sfaard è un avvocato per i diritti umani, consulente del gruppo Yesh Din.

https://www.haaretz.com/opinion/.premium-israelis-who-pillage-palestinian-olive-harvesters-are-not-my-brothers-1.9250112

Traduzione di Gennaro Corcella – AssopacePalestina

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