Il furto del secolo: rubare ai Palestinesi il loro passato e il loro futuro

Ott 11, 2020 | Riflessioni

di Ilan Pappe

Inside Arabia, 25 settembre 2020.

La strategia Netanyahu-Trump costituisce una reale minaccia esistenziale per la Palestina e i Palestinesi. È un tentativo di depoliticizzare la questione palestinese e rinquadrarla come un problema umanitario ed economico che può essere risolto con i finanziamenti arabi e la benedizione americana.

Una bandiera israeliana sventola sul Monte degli Olivi con la Città Vecchia di Gerusalemme e la Cupola della Roccia al centro, 27 marzo 2019 (AFP Photo)

“L’accordo del secolo” di Donald Trump e la strategia sul terreno di Benjamin Netanyahu costituiscono un reale pericolo esistenziale per la Palestina e i Palestinesi. È un assalto combinato contro la Palestina e il suo popolo che potenzialmente può essere distruttivo quanto la Nakba del 1948. È un tentativo di depoliticizzare la questione palestinese e rinquadrarla come un problema umanitario ed economico che può essere risolto con i finanziamenti arabi e la benedizione americana.

Al fine di comprendere l’ordine di grandezza di questo pericolo e la sua intensità, occorre esaminarlo in due contesti più ampi. Il primo è di natura storica e l’altro riguarda cosa fare nell’immediato futuro.

“L’accordo del secolo” è la conferma americana del Sionismo come legittimo movimento coloniale che ancora oggi, nel XXI secolo, è motivato da una logica che è stata appropriatamente definita da Patrick Wolfe come “l’eliminazione dei nativi“.

Storicamente, l’accordo è il coronamento delle precedenti politiche americane e israeliane sulla questione palestinese. Da quando il cosiddetto processo di pace è iniziato come Pax Americana, intorno alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, gli USA hanno dimostrato di non essere dei mediatori onesti.

Sulla carta, le amministrazioni che si sono succedute e i loro inviati speciali si sono impegnati a seguire le linee guida basate sul diritto internazionale e hanno quindi riconosciuto l’illegittimità delle colonie israeliane e dei tentativi di annessione; hanno persino condannato pubblicamente la sostanziale violazione dei diritti umani nei Territori Occupati. In pratica, queste riserve non si sono mai tradotte in azioni politiche o in pressioni su Israele affinché cambiasse il suo comportamento criminale sul campo.

Il risultato finale di questo approccio – che può essere definito come un parlare tanto per parlare, ma senza passare ai fatti– è stato un pubblico atto di ossequio alla rilevanza del diritto internazionale come guida morale per la politica americana verso la Palestina occupata, fornendo allo stesso tempo l’impunità –principalmente attraverso l’inazione– alla crescente colonizzazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza (quest’ultima sino alla sua espulsione nel 2006).

Fino alla fine del secolo scorso, i partiti politici dominanti in Israele hanno adottato un approccio simile e hanno coordinato assai strettamente le loro politiche con Washington.

Dall’inizio di questo secolo, e in particolare nell’era Netanyahu (iniziata quando è stato eletto per la seconda volta nel 2009), il divario tra il dire e il fare sia negli USA che in Israele è pressoché scomparso. Le azioni [illegali] sul terreno vengono ora pienamente approvate pubblicamente sia dall’amministrazione americana che dal governo israeliano. “L’accordo del secolo” riassume le precedenti politiche americane e le riconfeziona con una benedizione ufficiale alle azioni unilaterali di Israele nella Palestina storica.

Queste azioni americane nell’ultimo decennio includono il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele e il trasferimento dell’Ambasciata americana da Tel-Aviv a Gerusalemme Ovest. A questo è seguito il riconoscimento ufficiale dell’annessione israeliana delle Alture del Golan e il riconoscimento pubblico della legalità delle colonie ebraiche in Cisgiordania. “L’accordo del secolo” fornisce l’immunità americana alle future politiche di Israele nella Palestina storica, che sono volte a disegnare la mappa politica finale del Paese attraverso la coercizione e la creazione sul terreno di fatti irreversibili.

La natura della soluzione futura a cui si punta è molto chiara. Le sue caratteristiche principali sono già state rivelate da una legislazione israeliana aggressiva e razzista nella Knesset, iniziata nel 2010. La legislazione discrimina i Palestinesi di entrambi i lati della Linea Verde in ogni aspetto della vita, si tratti di opportunità occupazionali, residenza o fondamentali diritti civili. E questo in aggiunta alla già esistente espropriazione di terre, alle punizioni collettive e alle gravi restrizioni di movimento e di qualsiasi normale attività umana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

L’orgia legislativa è culminata nell’adozione della Legge sulla Nazionalità Israeliana nell’estate del 2018. Questa legge di apartheid afferma chiaramente che solo gli Ebrei possono essere riconosciuti come un gruppo nazionale con il diritto all’autodeterminazione all’interno di Israele; tuttavia, cosa sia “Israele” è definito in un’altra clausola che incoraggia i futuri governi a continuare la colonizzazione ebraica nella Terra di Israele (ossia Israele e la Cisgiordania). I confini finali non sono menzionati nella legge, poiché ci si aspetta che il futuro Grande Israele si estenda anche su delle parti della Cisgiordania, e in tutte questi parti Israele non consentirebbe alcuna manifestazione di nazionalismo palestinese.

L’evacuazione di Iraq al-Manshiyya vicino all’odierna Kiryat Gat, Israele, nel marzo del 1949 (Credit: Collezione Benno Rothenberg, the IDF and Defense Establishment Archives)

Questa legge ha retrocesso i cittadini palestinesi all’interno di Israele (e potenzialmente chiunque si aggiunga a questa comunità mediante l’annessione di parti della Cisgiordania e della Grande Gerusalemme) allo status di un gruppo con certe caratteristiche linguistiche e non a una comunità nazionale; più precisamente, come recita la legge, “persone parlanti arabo” con la promessa che la loro lingua godrà di uno “status speciale” nello Stato di Israele.

Questa legge è una legge fondamentale e, poiché Israele non ha una costituzione, ha un carattere costituzionale. Come tale, essa legittima retrospettivamente le politiche di fatto dell’apartheid e della colonizzazione e, al tempo stesso, prefigura ufficialmente il futuro Israele come uno stato di apartheid.

Ampi settori della società civile internazionale hanno messo in evidenza queste azioni e le hanno condannate. Negli ultimi anni, tre diversi eventi hanno eroso l’immagine internazionale di Israele: la comparsa del movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), lo spostamento verso l’estrema destra del sistema politico israeliano e la comparsa in Occidente di una nuova generazione di uomini politici e società civili pro-Palestina.

Ufficialmente Israele ha reagito a questo cambiamento dell’opinione pubblica internazionale prendendo di mira, già nel 2016, la memoria e la narrazione collettiva palestinese. La leadership politica e strategica israeliana pensa che la memoria storica e la storiografia siano strumenti che possono essere usati come armi contro l’ulteriore erosione di una già deteriorata immagine pubblica internazionale di Israele. Questa iniziativa è un ulteriore tentativo di gestire questo mutevole panorama mediante la depoliticizzazione della questione palestinese, proprio come ha fatto l’attuale amministrazione statunitense con il suo “accordo del secolo”.

L’assalto alla narrazione è stato reso esecutivo con la chiusura degli archivi israeliani che conservano i documenti della Nakba. Come rivelato in un’indagine di Haaretz del 2019, la restrizione israeliana all’accesso del materiale d’archivio fa parte di un’operazione ufficiale guidata dal Malmab (acronimo in ebraico del Direttore per la Sicurezza delle Istituzioni della Difesa), cioè il dipartimento segreto della sicurezza del Ministero della Difesa israeliano. Si tratta di un’unità clandestina le cui attività, attivisti e budget sono classificati e la cui esistenza è stata per la prima volta rivelata dallo storico israeliano Avner Cohen nel tentativo di far luce sulla politica nucleare di Israele.

Nel corso della sua indagine, Haaretz ha scoperto che Yehiel Horev, che ha diretto Malmab per due decenni sino al 2007, aveva iniziato a lavorare alla rimozione di documenti dagli archivi quando era al comando del dipartimento riservato, una pratica continuata sino a oggi dai suoi successori. Parlando ad Haaretz, Horev ha sostenuto che la chiusura degli archivi era giustificata dal fatto che la scoperta di documenti della Nakba avrebbe, nelle parole riportate dal giornale, “generato disordini tra la popolazione araba del Paese”.

Questa motivazione è ridicola per due motivi. In primo luogo, la minoranza palestinese di Israele, che i funzionari israeliani chiamano “gli Arabi israeliani”, è stata, sin dalla metà degli anni ’80, tra i gruppi più attivi e consapevoli nell’impegno –e protezione– della memoria della Nakba. L’Associazione per la Difesa dei Diritti degli Sfollati Interni (ADRID), che rappresenta i rifugiati palestinesi all’interno di Israele, insieme con gli studiosi e gli attivisti palestinesi locali, ha sostenuto l’interesse pubblico per la narrazione dei fatti del 1948 da parte dei Palestinesi.

Non avevano certo bisogno della documentazione israeliana per confermare la loro esperienza della pulizia etnica. Secondariamente, come ha fatto notare Haaretz, molti dei documenti ora in fase di riclassificazione erano stati già pubblicati, segnatamente dagli storici israeliani critici. Horev sperava che l’impossibilità di questi storici di ricontrollare la loro documentazione avrebbe “minato la credibilità di questi studi [critici] sulla storia del problema dei rifugiati”.

Come notato all’inizio di questo articolo, i movimenti colonialisti quali il Sionismo sono caratterizzati da quello che Patrick Wolfe ha definito “l’eliminazione dei Nativi“. Implicita nell’esistenza di Israele quale stato coloniale è la previsione che esso voglia nascondere le prove delle sue azioni di eliminazione, in special modo in un’epoca che guarda con sfavore al colonialismo e nel contesto di un paese che pretende di essere “l’unica democrazia nel Medio Oriente” e uno “Stato ebraico e democratico”.

La pulizia etnica della Palestina nel 1948 e il tentativo di cancellarne la memoria sono parte integrante dell’atto stesso di eliminazione. Come Wolfe ha indicato, il colonialismo non è un evento ma una struttura e quindi i tentativi di eliminazione c’erano già stati prima del 1948 e sono proseguiti da allora sino a oggi.

In termini più concreti, la visione di una Palestina de-arabizzata ha alimentato le note vicende di violenza della storia moderna del Paese: la pulizia etnica del 1948; l’imposizione del controllo militare su vari gruppi di popolazione palestinese negli ultimi 70 anni; l’aggressione all’OLP in Libano nel 1982; le operazioni in Cisgiordania nel 2002; l’assedio di Gaza; i progetti di giudeizzazione ovunque all’interno della Palestina storica, solo per citarne alcuni di una lista piuttosto lunga.

Ora possiamo aggiungere a questa lista il nuovo progetto del cosiddetto “accordo del secolo” e la programmata annessione di parte o dell’intera Area C (circa il 60% della Cisgiordania). È l’insieme di un tentativo di inquadrare i Palestinesi come persone senza diritti politici collettivi e allo stesso tempo di espandere la giudeizzazione della Cisgiordania. Chiudere gli archivi mediante la rimozione di materiale declassificato fa parte della stessa strategia di “chiudere” del tutto la questione palestinese.

A una Palestina depoliticizzata non è permesso sottoscrivere una narrazione storica che può alimentare le richieste politiche di uno stato, dell’autodeterminazione o del diritto al ritorno, tutte cose contrarie alla direzione che l’amministrazione Trump ha già portato avanti chiudendo la missione dell’OLP a Washington, trasferendo a Gerusalemme l’ambasciata USA in Israele, sospendendo i fondi americani all’UNRWA e presentando come legali le colonie israeliane nei Territori Palestinesi Occupati.

Come molte volte nel passato, l’interpretazione israeliana del cosiddetto “accordo” è importante tanto quanto l’accordo stesso. Agli occhi del governo israeliano, quell’atto ha legittimato in anticipo la futura annessione a Israele dell’Area C. A luglio di quest’anno, Netanyahu ha dichiarato che avrebbe reso effettiva quella parte dell’accordo durante l’estate.

Quest’interpretazione ignora la dichiarazione di facciata presente nel cosiddetto “accordo” secondo cui le restanti aree della Cisgiordania e la Striscia di Gaza costituirebbero un futuro Stato palestinese. I governi di Netanyahu, o del Likud, in futuro non accetteranno quella parte dell’accordo che si riferisce allo Stato palestinese, mentre i loro principali rivali, il partito Blu e Bianco o qualsiasi altra coalizione anti-Netanyahu, potrebbero fare propria quella adesione di facciata e sostenere l’idea di un mini stato, giusto per risolvere un problema di forma e non di sostanza.

Non è chiaro se prima delle prossime elezioni americane l’amministrazione Trump consentirà una piena annessione dell’Area C o di parte di essa. Questa parte del piano è stata recentemente bloccata con i due accordi di pace tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain, firmati in cambio della promessa israeliana di posticipare l’annessione. Tuttavia, le aree destinate quest’estate da Netanyahu all’immediata annessione ufficiale sono state già ripulite etnicamente dagli Israeliani.

Queste comprendono la Valle del Giordano, l’area intorno alla colonia Givat Hamatos (“Collina degli aerei” in ebraico), a sud di Gerusalemme, che si insinua come un cuneo in Cisgiordania disconnettendo la sua parte meridionale da Gerusalemme, oltre al blocco coloniale all’interno dell’area E-1, a est di Gerusalemme, che taglia fisicamente e irreversibilmente la Cisgiordania in due entità geopolitiche separate. Così, quando l’annessione ufficiale sarà dichiarata, essa sarà un atto simbolico, piuttosto che trasformativo.

Sezionare la terra, ritagliarla in piccoli Bantustan, e attaccare la narrazione e l’identità collettiva palestinese sono parti integranti dello stesso furto del secolo escogitato da Washington e Tel Aviv.

Due nuovi sviluppi, che in apparenza possono sembrare potenzialmente in grado di cambiare il corso della storia, potrebbero rivelarsi alla fine insignificanti per il dramma dei Palestinesi. Il primo è il crescente malcontento sociale e le manifestazioni in Israele contro il Primo Ministro Netanyahu, che attraggono ogni settimana dai 10.000 ai 20.000 dimostranti vicino alla sua residenza ufficiale, e il secondo è la possibilità di un’amministrazione democratica a Washington dopo le prossime elezioni presidenziali a novembre 2020.

Le manifestazioni sono un grido di protesta dell’area sionista di centrosinistra che in qualche modo non può rassegnarsi al fatto che l’elettorato ebraico da anni preferisce la coalizione di destra. La personalità particolarmente corrotta di Benjamin Netanyahu da un lato, e il suo costante tentativo di sottrarsi alla giustizia dall’altro, sono al primo punto all’ordine del giorno dei manifestanti. A loro si è aggiunta la classe media che non è stata adeguatamente compensata dalle chiusure imposte durante la crisi da COVID-19. Insieme sperano di far crollare Netanyahu con il sistema giudiziario o con le elezioni. È degno di nota che la maggior parte dei manifestanti non avverte alcun problema rispetto al Sionismo o all’oppressione dei Palestinesi. Anche se i manifestanti avessero un certo impatto sul sistema politico israeliano, questo avrebbe ben poca rilevanza per la situazione dei Palestinesi.

Un’amministrazione democratica negli Stati Uniti invertirà questa attitudine e questa politica? È difficile dirlo, poiché le precedenti amministrazioni, pur non adottando lo stesso discorso di Trump, hanno fatto molto poco per opporsi all’unilateralismo israeliano sul terreno. Se questa continuerà a essere la politica americana, le attuali pratiche americane costituiranno un pericoloso sviluppo che interesserà l’intera regione. L’accordo trasmette un chiaro disprezzo per il diritto internazionale e la giustizia universale di base.

Questo disprezzo per il diritto internazionale, da un lato, e l’esclusione di Israele da un dibattitto sui diritti civili e umani nella regione, dall’altro, impediranno agli Stati Uniti e all’Occidente di svolgere un ruolo utile nell’affrontare seriamente la triste realtà di questi diritti nella regione. È importante ricordare che il passato coloniale e imperialista dell’occidente, così come il sostegno occidentale alle potenze autocratiche, hanno contribuito a questa situazione quanto i regimi locali e i gruppi di opposizione che oggi abusano dei diritti del loro stesso popolo.

Sembra che la società civile del mondo, malgrado i risultati ottenuti in passato e l’impegno per la giustizia in Palestina, debba lavorare ancora più duramente, in solidarietà con un movimento nazionale palestinese che disperatamente cerca, finora senza successo, l’unità, per sventare il prossimo sforzo americano-israeliano di distruggere la Palestina e i Palestinesi.

https://insidearabia.com/the-steal-of-the-century-robbing-palestinians-of-their-past-and-future/

Traduzione di Elisabetta Valento – Assopace Palestina

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