Coronavirus: i minori palestinesi languiscono in prigioni israeliane “non adatte agli esseri umani”

Mag 23, 2020 | Riflessioni

Dozzine di bambini sono in stato di detenzione durante la pandemia di COVID-19. Devono essere immediatamente rilasciati e restituiti alle loro famiglie

di Claire Nicoll

Middle East Eye, 21 maggio 2020

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Bambini palestinesi passano davanti a un murale che raffigura il coronavirus e una prigione. Gaza City, 28 aprile (AFP)

Ho sentito le catene prima di vederli entrare. Quattro adolescenti maschi ammanettati insieme per i polsi e le caviglie si sono trascinati nel box degli imputati nella piccola aula del tribunale.

Uno di loro, Ahmed, sembrava particolarmente giovane, mentre si alzava sulla punta dei piedi per sbirciare oltre il bordo del box. Accusato di aver lanciato una pietra, accusa che lui nega, era in attesa di sentire il verdetto della corte militare.

I brevi processi dei ragazzi, al massimo cinque minuti ciascuno, si sono svolti interamente in ebraico, con un soldato che ogni tanto traduceva loro in arabo qualche parola meno comune. I ragazzi sembravano impauriti e confusi mentre attendevano di sapere il loro destino. Cercavano continuamente di parlare con i loro avvocati, ma non gli veniva permesso.

Sguardo disperato

A febbraio ero al tribunale militare di Ofer, nella Cisgiordania occupata, per assistere ai processi di civili palestinesi da parte dei giudici militari israeliani. Questo sistema giudiziario non si applica ai minori israeliani, che sono invece sottoposti al diritto civile, come nella maggior parte dei casi riguardanti i minori in tutto il mondo.

Quando arrivò il momento di Ahmed, fu deciso che c’erano prove aggiuntive da portare e quindi c’era bisogno di un nuovo processo. Mentre veniva ammanettato per essere riportato in prigione, Ahmed guardava disperatamente suo padre, Munther, che era seduto accanto a me.

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Disegno di Heba sulla sua detenzione (Save the Children)

A Munther fu consegnato un foglio informativo in ebraico che non era in grado di leggere. Mentre stava andando via, Munther disse che si sentiva come se stesse abbandonando suo figlio: “Non so proprio come aiutarlo”.

Ogni anno circa 500-700 minori palestinesi vengono detenuti e processati dal sistema giudiziario militare israeliano. L’accusa più comune è il lancio di pietre, che comporta la pena massima è di 20 anni. Attualmente, nonostante gli appelli delle Nazioni Unite a rilasciarli prima che il coronavirus si diffonda, più di 190 minori palestinesi rimangono in detenzione nelle prigioni israeliane. La maggior parte di loro, come Ahmed, è in detenzione preventiva e non è stata condannata per alcun reato.

Condizioni raccapriccianti

Minori ex detenuti ci hanno detto che le condizioni di detenzione nelle prigioni israeliane sono orribili: celle sovraffollate, pochi prodotti sanitari disponibili e quasi nessuna possibilità di ottenere assistenza sanitaria.

Loai, 18 anni, è stato rilasciato alla fine di aprile dopo tre mesi di prigione. Aveva 17 anni quando è stato incarcerato e ha condiviso la cella con altri cinque minori.

Quando è iniziata la pandemia di coronavirus, Loai ha detto che nessuno li ha informati: “Non ci è stato detto nulla su come salvaguardarci dal coronavirus, sull’importanza del lavarsi le mani”. Tuttavia le regole della prigione sono cambiate: “Ora i ragazzi possono uscire solo per un’ora al giorno”.

Ha detto Loai che durante la sua detenzione “le guardie carcerarie hanno disinfettato la struttura solo due volte. Disinfettavano le docce, le scale e il corridoio. Ma non le nostre celle, neanche una volta. Ci hanno dato una bottiglia di disinfettante che è durata circa 15 giorni, e una volta finita quella non ce ne hanno data un’altra dopo.”

Cibo e acqua insufficienti

Heba è stata arrestata quando aveva solo 14 anni ed è stata detenuta per otto mesi. Tre anni dopo, sta ora preparando gli esami scolastici, ma ricorda vividamente il suo periodo in prigione.

“Eravamo cinque ragazze in una cella; la più grande aveva 17 anni e io ero la più giovane. Le celle della prigione potevano contenere a malapena due persone. Non ci potevamo muovere all’interno. C’era un bagno senza porta. In estate gli scarafaggi erano ovunque. Non c’era una finestra per la ventilazione e la stanza era molto buia”.

A Heba e alle sue compagne di detenzione non veniva fornito alcun prodotto sanitario, hanno dovuto comprarlo loro stesse nel negozio del carcere. “L’acqua era a malapena potabile. Era bianca e l’odore di cloro era fortissimo”, ha aggiunto.

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“Il cibo non era adatto per gli essere umani”: disegno di Heba sul periodo della sua detenzione (Save the Children)

“Il cibo non era adatto agli esseri umani. Per esempio, quando ci veniva dato il pollo una volta a settimana, c’erano ancora le penne e non era cotto abbastanza, c’era ancora del sangue”, ha detto.

Ma la cosa più dura era la limitazione alle visite dei familiari. “Ai miei genitori fu consentito di venire in visita da me solo tre volte durante i miei otto mesi di detenzione”, ha detto Heba.

Dopo l’esplosione della pandemia di coronavirus, il diritto alla visita è stato sospeso dalle autorità israeliane, con dozzine di famiglie impossibilitate a visitare i loro figli incarcerati. Secondo le regole attuali, i minori possono fare alla famiglia una telefonata di 10 minuti ogni due settimane, ma in pratica i più riescono a parlarci solo una volta al mese. Il tributo di questo prolungato isolamento sul loro benessere non potrà mai essere sottolineato abbastanza.

Cogliere l’occasione

Alaa, 17 anni, riecheggia Loai e Heba quando ricorda i suoi sei mesi in carcere: “Cercavamo di lavare e disinfettare l’ambiente ogni giorno, ma poi le guardie entravano circa cinque volte al giorno nelle nostre stanze con i loro stivali sporchi e i con cani. Non erano permesse telefonate ai miei genitori. Ero veramente demoralizzato e avevo un disperato bisogno di sentire mia madre, mio padre e i miei fratelli”.

I minori palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane soffrono proprio le condizioni contro le quali gli esperti sanitari hanno messo in guardia nella lotta contro il coronavirus. Oltre all’enorme rischio per la loro salute e al potenziale danno al tentativo di contenere la diffusione del virus, molti minori sono bloccati in una specie di limbo, tagliati fuori dalle loro famiglie, senza sapere cosa c’è nel loro futuro e neanche quando ci sarà l’udienza per il loro caso.

Non possiamo permetterci di abbandonare questi ragazzi. Abbiamo ancora la possibilità di riportarli a casa, proteggere il loro diritto alla salute, controllare l’epidemia ed evitare ulteriori sofferenze.

Tutti i minori palestinesi che possono tornare in sicurezza presso le loro famiglie e comunità devono essere immediatamente rilasciati. Le autorità israeliane dovrebbero fare una moratoria sulle nuove carcerazioni e salvaguardare i diritti dei minori che rimangono in detenzione, proteggendoli da violenze, abusi e sfruttamento.

N.B.: Tutti i nomi sono stati cambiati per ragioni di privacy.

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Claire Nicoll è consigliera presso ‘Conflitti e Patrocinio Umanitario’ di Save the Children

https://www.middleeasteye.net/opinion/coronavirus-palestinian-children-languish-israeli-jails-not-fit-humans

Traduzione di Elisabetta Valento – AssopacePalestina

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