Poco importa chi vince le elezioni, per Israele l’immagine della vittoria è comunque chiara

Mar 3, 2020 | Riflessioni

Un cartellone che mostra i leader palestinesi sconfitti ed umiliati sintetizza la visione della ‘vittoria’ assoluta di Israele sui Palestinesi.

di Hagai El-Ad, 2 marzo 2020

Una famiglia palestinese seduta tra le macerie della propria abitazione nel distretto di At-Tuffah a Gaza City, dopo i violenti attacchi inflitti alla città durante l’ultima offensiva israeliana, 21 settembre 2014. (Activestills.org)

Entrambi i contendenti per la presidenza, Benjamin Netanyahu e Benny Gantz, sperano di poter tenere il loro discorso della vittoria dopo il voto di oggi. A prescindere dai risultati di queste ultime elezioni, Israele ha già esposto l’immagine della vittoria: un manifesto umiliante che mostra i leader palestinesi in ginocchio, bendati e sconfitti, sullo sfondo di una città distrutta.

La campagna pubblicitaria, promossa dal gruppo di estrema destra Israel Victory Project e prontamente rimossa per ordine del sindaco di Tel Aviv, riassume l’attuale situazione di controllo che Israele esercita sui Palestinesi. Seppur esposti per breve tempo, questi cartelloni sono già scolpiti nella coscienza collettiva. Dopo tutto, l’idea scaturisce da un elemento molto chiaro: la mentalità di un numero crescente di Ebrei d’Israele che esprimono apertamente la loro visione di “vittoria” assoluta sui Palestinesi – non solo in maniera inconscia, ma in modo chiaro e concreto.

Se ancora qualcuno dubita che questa immagine rappresenti il consenso maggioritario in Israele, basterà ricordargli il messaggio scelto da Gantz per il lancio della sua prima campagna elettorale: il vanto per il bilancio delle vittime contate a Gaza nel 2014 e per la distruzione seminata da Israele in quel territorio. Se utilizzano la stessa iconografia, la stessa coscienza collettiva e lo stesso consenso, dov’è la differenza tra il manifesto “estremista” e la cosiddetta “alternativa moderata”?

Accanto al partito Blu-Bianco di Gantz c’è il Likud di Netanyahu, che ha fatto di tutto per riservare un posto nella Knesset ai successori del partito apertamente razzista di Meir Kahane. La loro piattaforma politica, infatti, prevede la distruzione di Khan al-Ahmar, una piccola comunità di pastori palestinesi in Cisgiordania, divenuta uno struggente simbolo della lotta dei Palestinesi per la loro terra. Le pressioni per l’espulsione di questa comunità, però, non provengono soltanto dal partito di estrema destra di Itamar Ben Gvir, ma anche da altri attori principali della scena politica, tra cui Gideon Sa’ar del Likud e Moshe Ya’alon del partito Blu-Bianco. Nel frattempo, il procuratore generale dello stato di Israele si impegna ad escogitare un modo per aggirare gli “ostacoli legali” al trasferimento forzato della comunità, approvato ripetutamente dalla Corte Suprema. Allora la domanda che sorge è: chi è che non condivide una visione del futuro in cui i Palestinesi si inginocchieranno davanti a Israele, lasciandosi alle spalle le macerie delle loro comunità distrutte?

Qui non si tratta di un semplice manifesto. Questa immagine di vittoria è la grossolana rappresentazione grafica di un piano politico reclamizzato per realizzare una fase successiva: il piano di “pace” del presidente americano Donald Trump.

Il manifesto installato a Tel Aviv dal partito di estrema destra Israel Victory Project che mostra i leader palestinesi, Ismail Haniyeh e Mahmoud Abbas, bendati e in ginocchio. La frase recita: “La pace si fa con i nemici sconfitti”. (Oren Ziy)

In sostanza, al pari del suo omologo grafico, il piano si basa sull’umiliazione dei Palestinesi. Esso delinea per loro un futuro relegato a dei bantustan, senza diritti politici, libertà di movimento, o uguaglianza. Questo piano ha ricevuto un ampio supporto ebraico, da Benny Gantz all’Ambasciatore statunitense David Friedman, da Netanyahu al parlamentare Bezalel Smotrich della Jewish Home. Come Smotrich, molti coloni si oppongono al piano, presumibilmente perché temono la creazione di uno “stato palestinese” – proprio quello stato che il piano Trump intende seppellire apertamente, seppur in ritardo.

Lo schiacciante sostegno dato in Israele al piano del presidente americano si basa su una soluzione che –seppure attuata gradualmente nel corso degli anni e presentata sotto vari nomi– è rimasta sostanzialmente sempre la stessa: affidare agli Ebrei e per gli Ebrei il governo e il controllo di tutta l’area compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa visione ha guidato lo stato sin dalla sua fondazione, lasciando aperta la questione di cosa fare dei Palestinesi. Nel corso degli anni, Israele ha proposto una serie di risposte all’interrogativo, considerando entrambi i lati della Linea Verde. Mentre i confini di questa linea continuano a dissolversi per i cittadini ebrei, restano due aree lungo questo confine evanescente che mostrano chiaramente le intenzioni di Israele.

La prima, Wadi Ara, è una regione settentrionale voluta da Israele nel 1949 per ragioni geografiche. Una terra che, però, recava un prezzo demografico: i Palestinesi. Ora emergono appelli per “risolvere” questa questione e diminuire il numero di Palestinesi in Israele –  appelli avanzati non solo dal nazionalista Avigdor Liberman di estrema destra, che aveva già palesato la sua visione “estremista” dieci anni fa, ma anche dal Primo Ministro stesso, come parte integrante del piano Trump.

L’altra area è quella di Gerusalemme Est, architettata nel piano di Israele del 1967 per l’annessione di questo primo blocco della Cisgiordania. In questo caso, la “soluzione” alla questione demografica è stata messa in atto progressivamente nel corso degli ultimi dieci anni, imponendo ad interi quartieri palestinesi il divieto di oltrepassare il muro di separazione che Israele ha costruito nella città, e ostacolando l’accesso di altri Palestinesi all’interno di questi quartieri.

Cittadini palestinesi che costeggiano una sezione del muro di separazione nel villaggio di Abu Dis a Gerusalemme Est, 2 febbraio 2020. (Olivier Fitoussi/Flash 90)

Vogliamo la terra ma non quelli che la abitano. La risposta, per ora, sta nella ristrutturazione demografica degli spazi. Ma resta ancora una parte indesiderata di popolazione sulla riva occidentale del fiume. E se li “convincessimo” ad andare via? Questo è un eufemismo che inizia con l’“incoraggiamento all’emigrazione” –per usare le parole emerse nelle recenti discussioni del governo israeliano in merito ai Palestinesi di Gaza– e finisce con la pulizia etnica.

Un’immagine di vittoria? Soltanto una mente con una visione miope della storia e una forte sete di potere potrebbe pensarla così, perché quelli rappresentati in ginocchio non saranno umiliati per sempre. Anche in ginocchio – anzi, specialmente in ginocchio – gli esseri umani sanno guardare al futuro con chiarezza e dignità. Guardate, e ricordate che la città che adesso è in macerie sarà ricostruita, generazione dopo generazione, non da coloro che hanno riposto le loro speranze nelle mani della forza bruta, ma da quelli che gettano le fondamenta sulla forza morale della libertà, della giustizia e dell’uguaglianza.

Hagai El-Ad è il Direttore Esecutivo di B’Tselem, il centro israeliano di informazione per i diritti umani nei territori occupati.

https://www.972mag.com/israel-victory-elections-palestinian-defeat/

Traduzione di Giulia Incelli – Assopace Palestina

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