‘Sono presa di mira dai militari israeliani’ ha detto Razan al-Najjar prima di essere uccisa.

Giu 13, 2018 | Notizie

di Mersiha Gazdo e Anas Jnena

Mondoweiss, 8 giugno 2018

Razan al-Najjar, foto concessa dalla famiglia.

“Siamo sassi contro proiettili”

Ecco come la 21enne Razan al-Najjar ci ha spiegato la situazione lo scorso aprile, riguardo alla dimostrazione dei Palestinesi disarmati davanti ai cecchini dall’altra parte della recinzione.

Nelle prime due settimane dall’inizio della “Grande Marcia del Ritorno” Razan aveva più volte schivato la morte e serie ferite.

Ci ha ricordato come i soldati israeliani avessero più volte puntato i fucili su di lei intimandole di allontanarsi dai feriti.

Aveva anche avvertito una pallottola vicinissima alla testa ed ancora un’altra passarle dietro una gamba mentre si prendeva cura dei dimostranti nella zona vicina al confine che era diventata un poligono di tiro.

Razan al-Najjar, foto concessa dalla famiglia.

Stavamo preparando un servizio speciale sulle donne palestinesi in prima fila nella protesta e il tema ci ha portato naturalmente ad occuparci di Razan, una giovane donna con un amore immenso per la sua terra, fermamente determinata a combattere per la libertà e i diritti delle donne.

Sedute con Razan nel salotto della sua modesta casa di Khan Younis, non lontano dal confine, ci sembrò che non fosse interessata alla nostra presenza e anzi un po’ impaziente.

Più tardi capimmo che era appena rientrata dalla manifestazione e aveva fretta di ritornarci prima possibile.

Razan trascorreva 13 ore al giorno sul terreno come volontaria, e aveva il compito di guidare un gruppo di 164 paramedici volontari che lei stessa aveva riunito.

Quando ha cominciato a raccontarci episodi in cui erano stati salvati dei feriti bloccati vicino al confine, è subito apparsa chiara la sua unicità e il suo sfrenato coraggio.

“I soldati hanno cercato di uccidermi molte volte,” raccontava Razan. “Sapevo che ero diventata un obbiettivo per l’esercito israeliano e che dovevo star lontana dal terreno a causa della mia attività [di soccorso ai feriti], ma io non ne tenevo conto”.

Lo scorso aprile, durante una protesta del venerdì, mentre Razan correva ad aiutare un dimostrante ferito, un soldato israeliano la minacciò che se avesse fatto un solo passo avanti l’avrebbe uccisa. Razan lo ignorò e corse ugualmente ad aiutare il dimostrante.

Mentre trascorrevano i venerdì e aumentava lo spargimento di sangue, tutte le 8 infermiere del gruppo medico di Razan erano state ferite da pallottole esplosive o da gas lacrimogeni.

Razan al-Najjar, foto concessa dalla famiglia.

Fino a quel momento, Razan era rimasta fortunatamente illesa dalle pallottole, ma era svenuta più volte per l’esposizione ai gas lacrimogeni. Si era rotta un polso correndo per aiutare un ferito ed era stata colpita in faccia da una bomba a gas.

Partecipare a queste dimostrazioni è rischioso anche se uno porta una scritta che lo individua come un paramedico o un giornalista.

Molti sono stati colpiti quando meno se lo aspettavano, per esempio durante una pausa della protesta, quando la gente stava semplicemente andando in giro e non venivano nemmeno bruciati dei copertoni.

I paramedici hanno raccontato di casi in cui sono stati volutamente presi di mira, ciò che rappresenta un crimine di guerra secondo le Convenzioni di Ginevra.

Razan ha assistito, senza mai perdersi d’animo e disperarsi, alle orrende ferite ed alle morti brutali, anzi tutto questo le dava ancora più forza e determinazione.

Anas aveva cercato di convincere Razan a stare più attenta durante il lavoro (ad esempio, non correre verso il confine per raccogliere un ferito ma attendere che arrivassero anche altre persone), ma Razan considerava sciocchi questi suggerimenti e lo chiamava scherzosamente un fifone.

In un’altra occasione, cercando di scoraggiare Razan a non correre in aiuto ad un dimostrante, Anas tentò di convincerla a studiare infermieristica in Germania (un desiderio che Razan aveva espresso precedentemente).

Ma la sua risposta fu sintetica: “Voglio sacrificarmi per il mio paese. Sarò sempre presente per la mia terra e la mia casa. È mio dovere e mia responsabilità esser presente per aiutare i feriti”.

Razan ci raccontò altre cose di ciò che aveva visto.

“Ieri (16 aprile) mentre stavo lasciando la zona della protesta, tre dimostranti feriti erano rimasti bloccati vicino al confine e gli Israeliani impedivano all’ambulanza di raggiungerli. I soldati israeliani sembravano impazziti e bombardavano di colpi tutta la zona intorno ai feriti. Qualcuno mi ha chiamato dicendo che i dimostranti erano feriti e non si potevano muovere, e allora sono tornata indietro verso il confine senza esitazione e son riuscita a raccoglierli.”

“Non dimenticherò mai Tahrir Abu Sabla, 18 anni. Era stato colpito dai cecchini israeliani ed è ora in terapia intensiva. È un disabile (sordo). Io ero a diversi metri di distanza da lui e lo chiamavo per sapere se stava bene, ma mi ero dimenticata che è sordo. Allora mi sono diretta verso di lui, ma quando ero vicino, lui cadde colpito alla testa da una pallottola,” racconta Razan.

Con tanta tristezza negli occhi, ci ha detto che il suo cuore si spezzava vedendo tanti ragazzi morire di fronte a sé. Uno di loro le aveva lasciato le sue ultime volontà dicendo: “Prenditi cura di mia madre e dei miei fratelli Razan, ti prego Razan!”

Fin da quando era una bambina, Razan sognava di diventare medico e di fare grandi cose.

Non avendo risorse finanziare per andare all’università, fece per conto suo corsi di pronto soccorso e di infermieristica per oltre 200 ore.

Quando iniziò la Grande Marcia del Ritorno il 30 marzo, fu la prima infermiera donna ad arrivare sul posto alle 7 del mattino.

Razan aveva subito ideato dei test che i volontari paramedici dovevano completare, così da poter valutare le loro competenze ed avere a disposizione solo personale preparato durante le proteste.

“Voglio essere la migliore infermiera del mondo,” aveva detto.

In ambienti difficili come Gaza, i giovani uomini e donne sono spesso insicuri e parlano con modestia del loro futuro e delle loro ambizioni. Inseguono sogni nell’ambito di ciò che è “realistico e possibile” per evitare frustrazioni e perché i loro sogni non vengano giudicati dei cliché o troppo ambiziosi.

Ma Razan era diversa. Lei aveva fiducia, era grande, e grandi erano anche i suoi sogni; quando ne parlava dimostrava tutta la forza e la fiducia di qualcuno che li ha già realizzati.

“Voglio dimostrare al mondo che noi (donne) siamo socialmente attive e che abbiamo un grande ruolo nella comunità…… la mia determinazione, un giorno, mi renderà famosa. Voglio essere una grande infermiera conosciuta da tutti. Neppure le montagne spezzeranno la nostra forza.”

Le forze israeliane hanno ucciso Razan ma non potranno uccidere la resistenza palestinese, la battaglia per la libertà e il diritto al ritorno che Razan impersonava.

Lo spirito di Razan sopravvivrà e la causa continuerà, nonostante tutto: “Sassi contro proiettili.”

 Mersiha Gadzo

Mersiha Gadzo è una giornalista multimediale. I suoi articoli sono apparsi su Al Jazeera, CBC, Canadian Dimension e Middle East Eye. I suoi tweet: @merishagadzo.

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Traduzione di Giuliana Bonosi

A cura di AssopacePalestina

 

 

 

 

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