Le fiamme che hanno ucciso Fathi Harb dovrebbero farci bruciare di vergogna e senso di colpa.

Mag 30, 2018 | Riflessioni

di Jonathan Cook

The National, 27 maggio 2018

Fathi Harb avrebbe dovuto avere qualche cosa per cui vivere, non ultimo l’arrivo imminente di un altro figlio. La settimana scorsa, però, il ventunenne ha posto fine alla sua vita in un inferno di fiamme al centro di Gaza.

Si pensa che sia stato il primo esempio di un atto pubblico di auto-immolazione nell’enclave. Si è bagnato abbondantemente con della benzina in una strada di Gaza City, poco prima della preghiera dell’alba durante il mese sacro del Ramadan.

In parte, Harb, è stato spinto a compiere questo terribile atto di auto-distruzione per disperazione.

Dopo un selvaggio blocco decennale deciso da Israele per terra, mare e aria, Gaza è come una macchina che va avanti per inerzia non avendo più carburante. Le Nazioni Unite hanno ripetutamente avvertito che l’enclave diventerà inabitabile entro pochi anni.

Nello stesso decennio, Israele ha ridotto Gaza in rovine a varie riprese, in linea con la dottrina Dahiya dell’esercito israeliano. L’obiettivo è di decimare l’area presa di mira, riportando la vita all’Età della pietra, in modo che la gente sia troppo preoccupata a sbarcare il lunario per preoccuparsi della lotta per la libertà.

Entrambi questi tipi di attacco hanno avuto un impatto devastante sulla salute psichica degli abitanti.

Harb ricordava a malapena il periodo prima che Gaza fosse una prigione a cielo aperto e dove una bomba israeliana da 1000 kg. poteva cadere vicino a casa sua.

In un’enclave dove i due terzi degli uomini giovani sono disoccupati, Harb non aveva alcuna speranza di trovare lavoro. Non si poteva permettere una casa per la sua famiglia e stava per avere un’altra bocca da sfamare.

Senza dubbio, tutto questo ha contribuito alla sua decisione di morire dandosi fuoco.

L’immolazione di se stessi, però, è più che il suicidio. Un suicidio può fare tranquillamente, fuori dalla vista, in maniera meno raccapricciante. Di fatto, le cifre fanno pensare che la percentuale di suicidi a Gaza, di recente è schizzata alle stelle.

La pubblica immolazione di se stessi è, però, associata alla protesta.

È noto che un monaco buddista si trasformò in una palla di fuoco umana in Vietnam nel 1963 per protestare contro la persecuzione dei suoi correligionari. I Tibetani hanno usato la propria immolazione per mettere in risalto l’oppressione cinese, gli Indiani per condannare il sistema delle caste, e i Polacchi, Ucraini e Cechi per protestare contro il dominio russo.

Più probabilmente, però, per Harb il modello è stato Mohamed Bouazizi, il venditore ambulante tunisino che alla fine del 2010 si è dato fuoco dopo che gli agenti di polizia lo avevano umiliato una volta di troppo. La sua morte in pubblico innescò un’ondata di proteste in tutto il Medio Oriente che divennero la Primavera Araba.

I funerali di Mohamed Bouazizi in Tunisia.

L’auto immolazione di Bouazizi indica il potere che questo atto ha di incendiare le nostre coscienze. È l’atto finale del sacrificio individuale di se stessi, del tutto non violento, tranne che per la vittima stessa, compiuto altruisticamente per una causa più grande e collettiva.

A chi sperava di parlare, Harb, con questo atto sconvolgente?

In parte, secondo la sua famiglia, era arrabbiato con la leadership palestinese. La sua famiglia era intrappolata nella faida non risolta tra i governanti di Gaza, Hamas e l’Autorità Palestinese (AP) in Cisgiordania. Quella disputa ha portato l’AP a tagliare i salari dei lavoratori di Gaza, compreso il padre di Harb.

Senza dubbio, però, Harb aveva in mente anche un pubblico più vasto.

Fino a pochi anni fa, Hamas sparava regolarmente dei razzi fuori dall’enclave, in una lotta sia per porre fine alla prolungata colonizzazione della terra palestinese da parte di Israele che per liberare i Gazawi dalla loro prigione fatta da Israele.

Il mondo ha, però, rifiutato il diritto dei Palestinesi di opporsi con violenza e ha condannato i membri di Hamas come “terroristi”. La serie di violenze militari a opera di Israele a Gaza per mettere a tacere Hamas, sono state criticate in Occidente in modo arrendevole come “sproporzionate”.

I Palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, dove c’è ancora un contatto diretto con gli Ebrei israeliani, di solito coloni o soldati, osservavano come la resistenza armata di Gaza non riuscisse a risvegliare la coscienza del mondo.

Alcuni, quindi hanno intrapreso la lotta individualmente, prendendo di mira gli Israeliani o i soldati ai posti di controllo. Facevano questo armati con un coltello da cucina, oppure andavano loro addosso con una macchina, un autobus o una ruspa.

Anche questa volta, il mondo è stato dalla parte di Israele. La resistenza non è stata soltanto inutile, ma è stata denunciata come illegale.

Dalla fine di marzo, la lotta per la liberazione si è spostata di nuovo a Gaza. Diecine di migliaia di Palestinesi disarmati si sono ammassati ogni settimana vicino alla barriera del confine con Israele che li tiene in gabbia.

Le proteste vogliono essere una disubbidienza civile provocatoria, un grido di aiuto al mondo e che servano a ricordare che i Palestinesi vengono lentamente soffocati a morte.

Israele ha reagito ripetutamente “spruzzando” i dimostranti con munizioni vere, ferendone gravemente molte migliaia e uccidendone più di 100. Tuttavia, di nuovo, il mondo è rimasto in gran parte impassibile.

Invece, cosa anche peggiore, i dimostranti sono stati considerati dei tirapiedi di Hamas. L’ambasciatrice degli Stati Uniti all’ONU, Nikki Haley, ha incolpato le vittime dell’occupazione dicendo che Israele ha il diritto di “difendere il suo confine”, mentre il governo britannico ha dichiarato che le proteste erano state “sequestrate dai terroristi”.

Nessuno di questi fatti può essere sfuggito a Harb.

Quando si dice ai Palestinesi che possono “protestare pacificamente”, i governi occidentali intendono silenziosamente, in modi che Israele può ignorare, così da non disturbare le coscienze né richiedere qualche tipo di azione.

A Gaza, l’esercito israeliano sta rinnovando la dottrina Dahiya, questa volta facendo a pezzi migliaia di corpi palestinesi invece che le infrastrutture.

Harb capiva fin troppo bene l’ipocrisia dell’Occidente nel negare ai Palestinesi qualsiasi diritto di opporsi in maniera significativa alla campagna di distruzione di Israele.

Le fiamme che lo hanno divorato intendevano anche consumare noi per la colpa e la vergogna. E senza dubbio, altri a Gaza seguiranno il suo esempio.

Si dimostrerà che Harb aveva ragione? L’Occidente può essere indotto all’azione?

Oppure continuerà a incolpare le vittime per scusare la nostra complicità in 7 decenni di oltraggi commessi contro i Palestinesi?

Jonathan Cook

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il Giornalismo. I suoi libri più recenti sono: “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [ Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rifare il Medio Oriente] (Pluto Press) e Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [La Palestina che scompare: gli esperimenti di Israele di disperazione umana] (Zed Books). Il suo nuovo sito web è: www.jonathan-cook.net.

Una versione di questo articolo è apparsa per la prima volta sul quotidiano The National, di Abu Dhabi: https://www.jonathan-cook.net/2018-05-27/immolation-gaza-fathi-harb/

Traduzione di Maria Chiara Starace

Traduzione © 2018 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0

Fonte: http://znetitaly.altervista.org/art/25128

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Archivi

Fai una donazione

Fai una donazione tramite Paypal alla nostra associazione:

Fai una donazione ad Asso Pace Palestina

Oppure versate il vostro contributo ad
AssoPace Palestina
Banca BPER Banca S.p.A
IBAN: IT 93M0538774610000035162686

il 5X1000 ad Assopace Palestina

Il prossimo viaggio