Ilan Pappé a proposito della dichiarazione di Trump su Gerusalemme capitale.

Dic 17, 2017 | Riflessioni

da «www.islam21c.com», 12 dicembre 2017

Il noto storico israeliano Ilan Pappé scrive in questo articolo che l’annuncio di Trump su Gerusalemme ha dato il via a una catena di eventi che alla fine potrebbero portare ad un esito favorevole per i Palestinesi.

 

 

La dichiarazione del presidente Trump relativa al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele e al suo impegno a spostarvi l’ambasciata degli Stati Uniti è stata condannata da molti leader occidentali quale spiacevole deragliamento del processo di pace. Nella realtà non c’è alcun processo di pace che possa esser fatto deragliare, anche se per il futuro quella dichiarazione renderà ancora più difficile riportarlo in carreggiata. Se in passato c’era qualche sospetto di parzialità nella mediazione statunitense, ora è ben evidente che sarà quasi impossibile riconoscere le future amministrazioni Usa quali credibili mediatori.

Il danno recato dal riconoscimento e dall’impegno assunto dagli Stati Uniti risiede altrove. A partire dal 1948, il riconoscimento dello status speciale di Gerusalemme è stato l’unico principio cui si è attenuta la comunità internazionale, non solo a parole ma anche nei fatti. Questa posizione così unica può essere messa a confronto con l’atteggiamento internazionale relativo all’illegalità degli insediamenti ebraici nei territori occupati o all’inalienabile diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. In questi ultimi due casi, alla posizione morale non hanno mai fatto seguito azioni concrete. Per la questione di Gerusalemme le cose stanno diversamente.

La risoluzione ONU 181 (29 novembre 1947) sulla partizione della Palestina riconosceva Gerusalemme come un corpus separato, un’enclave internazionale. A essa seguirono varie risoluzioni delle Nazioni Unite, fra cui la risoluzione 194 (11 dicembre 1948) che tornava a confermare l’impegno sullo status internazionale della città. Gli Stati Uniti erano tra i forti sostenitori di questa posizione. Il governo israeliano reagì dichiarando Gerusalemme capitale eterna del popolo ebraico e situandovi stabilmente tutte le sue istituzioni pubbliche (governo, parlamento e Corte Suprema).

Le Nazioni Unite condannarono questa mossa, con la conseguenza che, dal 1949, quasi nessuno Stato membro dell’organizzazione osò aprire la propria ambasciata nella città. Si trattò di un risultato del tutto eccezionale. Dal febbraio 1947 al maggio 1948, ossia da quando l’ONU deliberò il futuro della Palestina sino alla fine del mandato britannico, le Nazioni Unite e, per estensione, la comunità internazionale accettarono incondizionatamente tutti gli argomenti morali sionisti e tutti i capitoli della narrazione ebraica israeliana.

Se da un lato si riconosceva la rivendicazione sionista della terra e dello Stato, dall’altro il motivo secondo cui da più di tremila anni la città di Gerusalemme era ebrea non sembrò convincere nemmeno quegli Stati membri dell’organizzazione tradizionalmente filosionisti. L’attaccamento alla città provato da Cristiani e Musulmani era –giustamente, bisogna dire– tanto forte quanto quello ebraico. All’epoca, l’ONU non riconosceva ai Palestinesi nessun diritto sulla città in cui vivevano da secoli e che la loro élite politica, culturale ed economica aveva fatto funzionare per quattrocento anni in nome dell’impero ottomano. Anche se si convenisse che le tribù ebraiche dei tempi biblici, le quali secondo l’Antico Testamento avevano più di una capitale, costituiscano lo Stato originario della nazione ebraica, il loro dominio su Gerusalemme negli ultimi tremilacinquecento anni è stato davvero breve rispetto a quello che altri, locali o stranieri che fossero, hanno esercitato sulla città.

La posizione internazionale è stata quella di ignorare, fino al 1967, i diritti su Gerusalemme dei Palestinesi (i quali fino al 1948 hanno vissuto in entrambe le parti della città, prima di venire espulsi dal suo lato occidentale durante la nakba). Il riconoscimento di ciò venne più tardi, dopo la guerra del giugno 1967.

Immediatamente dopo questa guerra il governo israeliano annunciò l’annessione ufficiale delle zone orientali occupate della città. All’annuncio fecero seguito la pulizia etnica di parte della popolazione palestinese, l’esproprio della terra e la messa in atto di grandi progetti di colonizzazione. Dopo il 1967 Israele ha continuato a ignorare la legge internazionale, l’opinione pubblica e la chiara condanna statunitense di quella annessione, indicata come una violazione del diritto internazionale. Ciò non dissuase gli Israeliani dal procedere con la politica di annessione ed espropriazione, che li portò a estendere quella che chiamavano Grande Gerusalemme su uno spazio che attualmente comprende quasi un terzo della Cisgiordania. Un’annessione che ha incorporato centinaia di migliaia di Palestinesi in un’area divenuta ufficialmente parte di Israele e che, in teoria, avrebbe potuto modificare l’equilibrio demografico del potere nello stato ebraico. Ma questa evenienza è stata scongiurata mediante il progressivo trasferimento di Palestinesi dalla zona e la contestuale esclusione dalla grande Gerusalemme di aree a forte densità di popolazione palestinese, aree definite parte della Cisgiordania.

Il fallimento del processo di pace di Oslo non ha modificato la posizione internazionale né a proposito dello status di Gerusalemme come capitale di Israele né a proposito della necessità di determinarne lo status finale considerando il diritto anche palestinese di avere lì la propria capitale. I fatti ormai compiuti sul terreno hanno reso arduo individuare dove poter stabilire una simile capitale palestinese (gli Americani e il “campo di pace” in Israele suggerirono di stabilirla nel villaggio di Abu Dis, situato alla periferia orientale della città). Nondimeno, sussisteva per i Palestinesi la speranza che i loro diritti sulla città fossero almeno assicurati dal chiaro riconoscimento internazionale del fatto che, a partire dal 1948, le azioni israeliane hanno costituito una palese violazione del diritto internazionale.

Una scintilla che scatena il caos

La dichiarazione resa da un presidente americano che legittima queste violazioni come se lui, o il suo paese, stessero al di sopra del diritto internazionale, ha varie implicazioni e diverse possibili conseguenze. Come si è detto, potrebbe trattarsi del canto del cigno di un lungo, vergognoso e disastroso capitolo della mediazione statunitense nella questione palestinese. Di per sé ciò potrebbe rivelarsi in futuro un fatto non negativo, a condizione che esista la volontà di ripensare i presupposti di base relativi alla natura dei negoziati. E potrebbe, e forse dovrebbe, condurre a un ripensamento della validità e della rilevanza della soluzione a due stati così come a una più seria considerazione dei vari modelli di soluzione a un unico stato.

Ma c’è qualcosa di più importante e urgente: quest’ultima mossa statunitense dimostra ancora una volta quale sia l’attuale necessità, posto che la comunità internazionale intenda svolgere un ruolo costruttivo in Palestina e, per estensione, nel mondo arabo nel complesso. Adesso non è necessario tentare inutilmente, per l’ennesima volta, di rimettere in carreggiata il “processo di pace”; è invece necessario riconoscere che soltanto una forte pressione su Israele può impedire l’ulteriore espropriazione dei Palestinesi. La quotidiana attuazione della politica di espropriazione da parte israeliana, non solo a Gerusalemme, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza ma anche in Israele, costituisce la ragione principale dell’eventuale scoppio, in qualsiasi momento, di una terza rivolta; una rivolta che potrebbe gettare l’area nel caos in un momento in cui sono seri gli sforzi tesi a sanare le ferite inferte dall’occupazione straniera e dalle guerre civili degli ultimi sei anni. Da un lato, la dichiarazione di Trump può rivelarsi la miccia di detonazione della rivolta; dall’altro, essa può anche costituire l’occasione perché si aprano gli occhi e si giunga a un nuovo approccio alla catastrofe palestinese in corso.

Ilan Pappé

https://www.islam21c.com/politics/ilan-pappe-trumps-announcement/

Traduzione di Cristina Alziati

1 commento

  1. jeanpatrick

    “Da un lato, la dichiarazione di Trump può rivelarsi la miccia di detonazione della rivolta; dall’altro, essa può anche costituire l’occasione perché si aprano gli occhi e si giunga a un nuovo approccio alla catastrofe palestinese in corso.” Capisco, capisco, però quanti morti ancora per aprire gli occhi! E poi gli occhi di chi?

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