Portare in primo piano i Palestinesi.

Mag 20, 2017 | Riflessioni

di James Zogby.

Huffpost 25 marzo 2017.

Gli americani non sanno ancora che i Palestinesi sono persone reali, e per questo non se ne interessano.

Palestinesi piangenti al funerale di Mahmud Hattab (16 anni), ucciso dall’esercito israeliano. Campo Rifugiati di Jalazone a Ramallah, Cisgiordania, 24 marzo 2017. Anadolu Agency via Getty Images

Sono passati ormai 40 anni da quando fondai insieme ad altri la Campagna Palestinese per i Diritti Umani (PHRC) e scrissi il libro “Palestinesi, le vittime invisibili”. Mi preoccupavo del fatto che nell’immaginario americano il conflitto palestinese si fosse ridotto ad una semplice equazione: l’umanità israeliana contro il problema palestinese.

La maggior parte degli americani, quando pensavano al conflitto, si immaginavano gli israeliani come persone tali e quali a noi. Erano genitori che amavano le loro famiglie. Volevano ciò che anche noi volevamo: pace, prosperità, e l’opportunità di vedere i loro figli crescere e realizzare i loro sogni. Avevano nomi e volti. Sentivano il dolore e la perdita. Erano reali.

I palestinesi, dall’altro lato, erano rappresentati, nel migliore dei casi, come qualcosa di astratto. Erano oggettivati come una massa senza faccia, senza nomi o personalità. Quando anche se ne parlava, erano rifugiati o terroristi; o, dopo un conflitto, semplici numeri nel conto delle vittime. Non li riconoscevamo come persone individuali e quello che sapevamo era ingessato in stereotipi negativi. Le uniche emozioni che venivano attribuite ai palestinesi erano il loro essere rabbiosi, violenti e per niente affidabili. Non erano persone da aiutare ma un problema da risolvere.

Era attraverso questa lente che la maggior parte degli americani, sia i decisori politici che il grande pubblico, vedevano il conflitto. Se dovevano scegliere tra un popolo e un problema, la scelta più facile era quella di appoggiare il popolo israeliano.

Questa inquadratura del problema non era casuale. Era invece il risultato di una sistematica campagna di disumanizzazione di una parte e di umanizzazione dell’altra. Questo è stato ben colto dal film propagandistico The Exodus degli anni 1960, che traspose la allora popolare narrativa americana dei pionieri che affrontavano gli indiani, nella storia dei “coraggiosi israeliani” che combattevano contro i selvaggi “nativi arabi”.

Questa inquadratura del conflitto è continuata nei decenni successivi. Nel 1981 mi occupai di un notiziario televisivo su uno scontro tra Israele e OLP ai confini col Libano. Nel primo giorno, due israeliani furono uccisi. Le telecamere erano lì a intervistare familiari in lacrime, a raccontare le loro storie di paura e di dolore. Il giorno successivo, jet israeliani bombardarono il quartiere di Fakhani a Beirut Ovest, uccidendo oltre 383 civili libanesi e palestinesi. Alla sera, le telecamere erano di nuovo al nord di Israele per continuare con altre interviste. Non ci fu alcuna diretta dal Libano, si riferì soltanto un conteggio delle vittime arabe. Quando il giorno dopo ci fu la diretta televisiva, il reporter stava in fondo a una strada bombardata e con i segni di una grande distruzione. Non fu intervistato nessuno, non fu raccontata nessuna storia personale. In Israele la notizia erano le persone, in Libano erano le case e una conta delle vittime.

Nel 1994, quando Baruch Goldstein, un giovane terrorista israelo-americano, massacrò 29 musulmani in preghiera nella moschea di Hebron, il Washington Post fece un articolo importante per cercar di capire cosa aveva portato il giovane alla violenza. Le facce, i nomi e le età delle vittime palestinesi non arrivarono mai sulle pagine del giornale. La notizia era Goldstein, le sue vittime erano invisibili. Pochi anni dopo, un bambino israeliano di 3 mesi venne ucciso da un cecchino palestinese. La notizia fu in prima pagina per tre giorni, con tanto di foto ed interviste dei genitori in lacrime. Quando, alcuni giorni dopo, un bambino palestinese di 3 anni venne ucciso da un cecchino israeliano, nessuno dei principali quotidiani pubblicò la notizia. Venne riportata solo alla settima riga di una breve nota dell’Associated Press. Non vennero fatti nomi ed i genitori non furono intervistati. Fu come se il loro bimbo e il loro dolore non avessero nessuna importanza.

Ancora oggi il conflitto è inquadrato in uno schema in cui i palestinesi sono invisibili e/o sono considerati come oggetti. Nemmeno le voci più progressiste del Congresso parlano dei palestinesi. Sostengono invece la “soluzione dei due stati,” al fine di preservare Israele come uno Stato ebraico e democratico. Un gruppo liberale pro-Israele fa uscire periodicamente intere pagine pubblicitarie sul New York Times e sul Washington Post a favore dei due stati, con l’osceno argomento della minaccia demografica che il tasso di natalità palestinese potrebbe portare all’ebraicità di Israele.

Sfortunatamente, i progressisti contribuiscono spesso inconsciamente a tutto questo, mancando di promuovere l’umanità palestinese. I loro sforzi si concentrano sulla condanna delle politiche israeliane (che indubbiamene meritano di essere condannate), incitando a boicottaggio, disinvestimento, e sanzioni (BDS) contro lo Stato di Israele. Pur sostenendo la causa del BDS, temo che a volte il BDS venga promosso senza raccontare le storie personali dei palestinesi vittime dell’occupazione. L’obiettivo diventa punire Israele, invece di mettere in primo piano i palestinesi.

E così il problema resta: gli americani non vedono ancora i palestinesi come delle persone reali e, di conseguenza, non se ne interessano. Poiché questa resta una sfida aperta, ho deciso che 100 anni dopo Balfour, 70 dopo la divisone, e 50 dopo la guerra del 1967, tornerò alle mie radici per raccontare la storia della Palestina. Per fare ciò dovrò inevitabilmente affrontare la narrativa sionista che nega non soltanto l’umanità dei palestinesi ma la loro stessa esistenza come popolo che ha una sua storia. Voglio portare alla ribalta i poeti e gli artisti palestinesi. Voglio spendere le mie energie per mettere in evidenza la narrativa palestinese, dando un corpo alle ossa dell’esperienza palestinese, sfidando gli americani a vedere i palestinesi come persone reali che vogliono e meritano giustizia, uguaglianza, pace, prosperità e come genitori che amano le loro famiglie e desiderano veder crescere i lori figli e veder realizzati i loro sogni.

Alcuni potrebbero trovare minaccioso tutto questo, perché sfida fondamentalmente l’equazione razzista che ha definito il conflitto per un secolo. Tanto meglio.

http://www.huffingtonpost.com/entry/elevating-palestinians_us_58d5a248e4b06c3d3d3e6dbe

Traduzione di Dafne De Benedictis

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