Israele è uno Stato che pratica l’apartheid?

Apr 13, 2017 | Riflessioni

di Richard Falk

The Nation, 22 marzo 2017.

Richard Falk

Sei mesi fa la Commissione delle Nazioni Unite per gli Affari Economici e Sociali dell’Asia Occidentale (ESCWA) ha chiesto a Virginia Tilley ed a me di scrivere uno studio che esaminasse l’applicabilità del concetto di apartheid – come contemplato nel diritto penale internazionale – alle politiche e pratiche israeliane nei confronti del popolo palestinese. Noi fummo contenti di accettare l’incarico e immaginammo il nostro ruolo come un impegno in una attività accademica. La ESCWA, una delle molte commissioni regionali delle Nazioni Unite, aveva richiesto lo studio a seguito di una mozione unanime adottata dai suoi 18 membri dei governi arabi.

A poche ore dalla sua pubblicazione, il 15 marzo, il nostro rapporto (intitolato “Le pratiche di Israele verso il popolo palestinese e la questione dell’apartheid”) fu accolto in un modo che può solo essere descritto come isterico e derisorio. L’ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite Nikki Haley, di recente incarico, ha denunciato il rapporto e ha chiesto che le Nazioni Unite lo respingano. Il Segretario Generale appena eletto, António Guterres, ha invitato rapidamente e pubblicamente la ESCWA a ritirare il rapporto dal suo sito web e, di fronte alla resistenza di Rima Khalaf, a capo della Commissione, Guterres ha continuato ad insistere. Piuttosto che accettare, Khalaf ha dato le dimissioni, spiegando le sue ragioni in una cortese lettera al Segretario Generale, basata sulle sue posizioni di principio: un’eloquente espressione di coscienza pubblica che è estremamente rara nella pratica delle Nazioni Unite e che merita di essere segnalata e commentata nel modo più favorevole. Poco dopo, il rapporto è stato ritirato dal sito web della Commissione, malgrado fosse dichiarato in modo molto chiaro all’inizio del documento che il rapporto presentava le opinioni dei suoi autori e non necessariamente quelle dell’ESCWA o delle Nazioni Unite.

Ciò che colpisce in questo schema di azione e reazione, che ricorda in molti aspetti la risposta del governo degli Stati Uniti al Rapporto Goldstone (la missione d’inchiesta delle Nazioni Unite sul Conflitto di Gaza del 2008-9) è il modo col quale i funzionari ed i sostenitori di Israele, in risposta alle critiche, hanno cercato di screditare e di colpire l’autore piuttosto che rivolgersi al contenuto e offrire una spiegazione ed una difesa basate sulla sostanza. Tutte le volte che queste tecniche hanno successo nell’obiettivo di screditare, colpire e spostare l’attenzione, il ruolo delle Nazioni Unite come promotore del bene pubblico è indebolito, e l’Organizzazione diventa piuttosto uno strumento con il quale le forze geopolitiche dominanti fanno valere la loro volontà a spese della verità, della ragione e del benessere dell’umanità.

Virginia Tillley, professore di scienze politiche alla Southern Illinois University di Carbondale ed uno dei principali esperti mondiali di apartheid, così come io stesso, ed anche la ESCWA, avremmo accolto volentieri una discussione nel merito ed una risposta critica, e speravamo che le nostre analisi e conclusioni fornissero la base per un dibattito, un dialogo e un’ulteriore valutazione delle raccomandazioni conclusive. La ESCWA, da parte sua, ha provveduto ad assicurarsi che il rapporto forse conforme agli standard accademici sottoponendo la bozza di testo a tre importanti giuristi internazionali a cui è stato richiesto di fornire la loro valutazione oggettiva in maniera anonima. Ciascuno dei tre ha presentato una valutazione fortemente positiva e alcuni suggerimenti di revisione che noi abbiamo incorporato con gratitudine prima di rilasciare il testo conclusivo. Stando così le cose, è del tutto irresponsabile che funzionari governativi o chiunque altro rigetti il nostro rapporto come se fosse una polemica di parte; un simile comportamento danneggia l’autorità delle Nazioni Unite e il rispetto della legge internazionale.

Ugualmente fuorviante è ciò che hanno fatto diplomatici americani ed israeliani, così come i media: trattare cioè questo studio come se fosse un rapporto ufficialmente avallato dalle Nazioni Unite. Tale trattamento ignora la dichiarazione sulla prima pagina del rapporto, che afferma esplicitamente che le analisi e le interpretazioni presentate sono solo quelle degli autori, e non devono essere attribuite alle Nazioni Unite. Si tratta di un documento cui è stato dato inizio da una agenzia delle Nazioni Unite, che ha avuto una valutazione qualitativa rispetto alla sua aderenza agli standard accademici, ma che non è stato sinora adottato e nemmeno approvato, anche se questo potrebbe avvenire in futuro, un passo che noi come autori accoglieremmo con favore.

Durante il mio incarico come Inviato Speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (2008-14), sono stato testimone di come i filo-israeliani cercano di screditare gli oppositori. I miei rapporti da quella posizione includevano spesso una dura critica di Israele e di altri attori, su argomenti come il disprezzo delle leggi internazionali, l’espansione illegale degli insediamenti, l’uso eccessivo della forza, la complicità di multinazionali e banche che fanno affari e traggono profitto dagli insediamenti. Con mia sorpresa, non ho mai ricevuto smentite sulla sostanza di queste specifiche accuse, ma ho avuto la spiacevole esperienza di vedere che parole da me dette su argomenti totalmente diversi venivano messe fuori contesto e portate all’attenzione di alti ufficiali delle Nazioni Unite e di importanti diplomatici degli stati membri. Tra i miei più aspri critici c’erano non solo le solite ONG ultra-sioniste, ma anche i diplomatici di Barack Obama alle Nazioni Unite, comprese Susan Rice e Samantha Power, come anche l’allora Segretario Generale Ban Ki-moon. Cito questa esperienza personale solo per far notare che ricade in un modello di vecchia data, secondo cui si danno risposte diversive che cercano di diffamare chi critica, piuttosto che impegnarsi in un dibattito ragionato su problemi importanti del diritto e della giustizia che sono in pericolo.

Il crimine internazionale di apartheid è stato autorevolmente specificato nella Convenzione del 1973 per la Repressione e la Punizione del Crimine di Apartheid. Gli elementi principali del crimine sono costituiti da atti deliberati e sistematici di discriminazione razziale, posti in atto con lo scopo di mantenere strutture illegali di dominazione razziale, cioè una razza dominante che soggioga un’altra razza. Il nostro rapporto ha anche valutato se, nel contesto del nostro studio sulla presenza di apartheid, fosse opportuno considerare Ebrei e Palestinesi come razze distinte; abbiamo scoperto che c’erano numerosi motivi per farlo. Come mostra il nostro rapporto, la “razza” in questo contesto legale è intesa come una categoria costruita socialmente e politicamente per identificare un popolo distinto. Non è necessariamente correlata con realtà biogenetiche, che in questo caso mostrano effettivamente una sovrapposizione tra Ebrei e Palestinesi.

Anche i cittadini palestinesi di Israele, che possono votare e formare partiti politici, sono soggetti a molte leggi discriminatorie che compromettono la loro sicurezza e la loro qualità di vita. Il rapporto sviluppa anche il concetto che l’esistenza o meno di apartheid dipende dal trattamento di tutto il popolo palestinese nel suo complesso, e non accetta la frammentazione che è stata imposta da Israele. Adottando quella che riteniamo essere una metodologia innovativa, abbiamo affrontato questa sfida dividendo i Palestinesi in quattro gruppi che corrispondono al modo in cui Israele ha esercitato la sua autorità nel corso di molti decenni, anche se le tattiche specifiche di controllo variano nel tempo. In passato, uno studio approfondito da parte di studiosi di diritto internazionale ha concluso che le pratiche di Israele nei territori palestinesi occupati hanno le caratteristiche dell’apartheid [vedi Virginia Tilley, ed., Beyond Occupation: apartheid, colonization and international law in the occupied Palestinian territories. Pluto: Londra 2012]. Questo studio ha richiamato l’attenzione sul trattamento discriminatorio dei Palestinesi, che sono soggetti all’amministrazione militare, mentre la popolazione dei coloni ebrei gode in pieno dei benefici dello stato di diritto, come accade in Israele per i cittadini ebrei. Questo stesso studio ha individuato come segni distintivi di apartheid le strade “ad uso esclusivo dei coloni,” i doppi sistemi giuridici, e la separazione draconiana su base razziale delle due popolazioni in zone diverse. Le pratiche repressive che hanno reso la vita dei cittadini palestinesi un calvario quotidiano sono una caratteristica centrale di questo sistema di controllo organizzato su base razziale. Va anche notato che, secondo l’interpretazione prevalente del diritto internazionale, la condanna e la criminalizzazione di forme nonviolente di resistenza all’apartheid costituisce di per se un crimine di apartheid.

Una donna palestinese discute con i soldati israeliani a un checkpoint della Cisgiordania a sud di Hebron. 16 agosto 2016 (Reuters / Mussa Qawasma).

Un secondo gruppo analizzato nel nostro rapporto è costituito dai Palestinesi che sono residenti di Gerusalemme. Qui il carattere di apartheid dell’autorità israeliana si manifesta nel fatto che il governo di Israele mina seriamente la qualità di vita dei Palestinesi che vivono a Gerusalemme, manipolando i loro diritti di residenza, nonché imponendo una serie di pratiche discriminatorie, che vanno dalle misure fiscali, alle demolizioni, al rifiuto arbitrario di permessi di costruzione.

Il terzo gruppo è la minoranza palestinese che vive in Israele, forse la componente più problematica per stabilire una definizione di apartheid che abbracci l’intera popolazione palestinese. Questa categoria comprende circa 1,7 milioni di cittadini di Israele, che possono formare partiti politici e votare alle elezioni. Ma a questa minoranza, che costituisce circa il 20 per cento della popolazione israeliana totale, è vietato dalla legge di contestare il proclamato carattere ebraico dello Stato. Questa minoranza è inoltre assoggettata ad una vasta gamma di leggi discriminatorie sulla nazionalità, nonché a pratiche amministrative che limitano gravemente i loro diritti, con effetti sulla compravendita di terreni ed immobili, sull’immigrazione, sul ricongiungimento familiare, e sulle normative matrimoniali.

Un quarto gruppo, quello che comprende il più grande segmento demografico, è composto da Palestinesi registrati come rifugiati secondo le procedure delle Nazioni Unite o che comunque vivono in condizioni di esilio involontario. Alla base di tutto c’è il rigetto da parte di Israele della Risoluzione 194 (1948) dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che sancisce che i Palestinesi espropriati o sfollati da parte di Israele nel 1948 godono del diritto al ritorno. La Risoluzione 3236 dell’Assemblea Generale dichiara che tale diritto al ritorno o rimpatrio è un “diritto inalienabile,” che quindi presumibilmente si estende a quelle altre centinaia di migliaia di Palestinesi sfollati in seguito, a causa della guerra del 1967. Per quanto se ne sa, a nessun Palestinese sfollato dopo l’istituzione di Israele nel 1948 è stato concesso il diritto al ritorno e la ri-acquisizione della residenza.

Il rapporto sostiene che il crimine di apartheid è ormai separato dalle sue origini storiche in Sud Africa. Né la Convenzione del 1973 né lo Statuto di Roma del 1998 (che è alla base della Corte Penale Internazionale) lega l’apartheid al Sud Africa, ma piuttosto sancisce la sua pratica come un reato a sé stante contro l’umanità. Pertanto, ci sono importanti differenze tra il modo in cui l’apartheid è stato condotto in Sud Africa e il modo in cui è attualmente imposto ai Palestinesi, ma queste differenze non sono rilevanti per la questione se sia giusto e accurato applicare la definizione di apartheid al caso israeliano. Una differenza degna di nota è che in Sud Africa la leadership afrikaner aveva proclamato senza mezzi termini l’apartheid come risultato della sua convinzione ideologica sulla separazione delle razze, mentre in Israele una simile struttura di separazione sulla base della razza è negata e ripudiata, e la sua attribuzione alla situazione israeliana è sentita come un insulto infamante. Ci sono anche altre differenze, riguardo alle percentuali di popolazione in età lavorativa ed al rapporto demografico tra Ebrei e Palestinesi.

La nostra relazione conclude che Israele ha deliberatamente frammentato il popolo palestinese in questi quattro gruppi demografici, usando la discriminazione sistematica, ed anche “atti disumani,” soprattutto per mantenere il suo controllo e rendere più difficile la resistenza, mentre continuava ad espandersi territorialmente a spese delle prospettive palestinesi di autodeterminazione. Sulla base di questi risultati – supportati da presentazioni dettagliate di dati raccolti sul terreno, inclusi riferimenti a fonti ufficiali israeliane – concludiamo che l’accusa di apartheid ai danni del popolo palestinese è fondata e descrive la situazione attuale meglio di quanto si faccia usando il termine ‘occupazione.’

Come suggerito in precedenza, siamo consapevoli che il nostro rapporto è il lavoro di ricercatori accademici e non rappresenta l’individuazione autorevole di apartheid da parte di un’istituzione ufficiale giudiziaria o governativa. Come accennato – contrariamente alla copertura mediatica e alle denunce dei diplomatici – il rapporto non è mai stato approvato o accettato dalle Nazioni Unite, e nemmeno dalla ESCWA. Noi raccomandiamo comunque una tale approvazione, ed esortiamo le Nazioni Unite, i governi nazionali e la società civile ad adottare misure destinate ad incoraggiare Israele a smantellare il suo regime di apartheid e a trattare il popolo palestinese secondo le regole del diritto internazionale e dei diritti umani, nonché della morale elementare.

In uno scenario più ampio, la nostra tesi che Israele è diventato uno stato di apartheid si inserisce in una realtà che non presenta nell’orizzonte diplomatico alcuna risoluzione pacifica del conflitto, e quindi non esiste una prospettiva prevedibile di porre fine al regime discriminatorio ed alla conseguente sofferenza del popolo palestinese. Questa struttura quasi permanente di dominazione non può essere giustificata a tempo indeterminato invocando le esigenze di sicurezza di Israele, che sono a loro volta create in parte dalla riluttanza di Israele a rispettare i diritti dei Palestinesi secondo il diritto internazionale. Un popolo non può essere represso in modo permanente con la forza militare e con metodi di coercizione amministrativa senza rendersi conto che la struttura che ne emerge è quella di un regime di apartheid. In realtà, il motivo per cui non abbiamo atteso una valutazione più formale di queste accuse di apartheid è anche perché sentiamo l’urgenza di porre fine ad una serie di disposizioni che sono state per tanto tempo responsabili di tanta sofferenza e della negazione di diritti fondamentali, primo tra tutti il diritto all’autodeterminazione.

Rimane la nostra speranza centrale, condivisa con la ESCWA, che l’ampia diffusione di questa relazione porti a una comprensione più chiara della situazione palestinese ed incoraggi risposte più efficaci da parte delle Nazioni Unite, dei governi, e della società civile. Al di là di questo, è nostro desiderio permanente che le persone di buona volontà in tutto il mondo, in particolare all’interno di Israele, lavorino verso una soluzione politica che finalmente permetta ad Ebrei e Palestinesi di vivere insieme in pace e con giustizia.

https://www.thenation.com/article/the-inside-story-on-our-un-report-calling-israel-an-apartheid-state/

Traduzione di Maurizio Bellotto

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