Barghouti sarà il Nelson Mandela palestinese?

Lug 12, 2016 | Riflessioni

A quasi 15 anni da quando cominciò a scontare vari ergastoli per il suo ruolo nelle uccisioni della seconda intifada, Marwan Barghouti è ancora considerato –dalla maggior parte dei Palestinesi, da molti Israeliani e leader mondiali– come l’uomo che potrebbe guidare il suo popolo all’indipendenza. Usando un intermediario, Barghouti racconta ad Haaretz che lui rimane un convinto sostenitore della soluzione a due stati e che intende candidarsi alla presidenza palestinese se si indiranno le elezioni.

di Gidi Weitz e Jack Khoury, 5 luglio 2016

http://www.haaretz.com/israel-news/1.728135

  1. RAMALLAH, 2002

Il 15 aprile 2002, il Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano, Shaul Mofaz, chiamò il ministro della difesa Benjamin Ben-Eliezer. “Lo Shin Bet lo ha scovato. Sappiamo dove si nasconde,” disse Mofaz al ministro.

“Non voglio che sia fatto fuori: arrestatelo soltanto,” Ben-Eliezer raccomandò a Mofaz. Secondo lui, l’uomo allora più ricercato sarebbe diventato il prossimo leader dei Palestinesi, dopo l’era di Arafat.

Shaul Mofaz. Michal Fattal

“Se cerca di resistere e di combattere gli spariamo,” disse Mofaz al suo capo, “ma sono pronto a scommettere che si arrenderà senza far resistenza, perché non ha fegato.”

Nei mesi prima che lo scoprissero, Marwan Barghouti faceva la vita di un uomo braccato. “Abbiamo cercato di eliminarlo due volte, abbiamo fatto fuori i suoi uomini a destra e a manca,” ha raccontato a Haaretz Avi Dichter, che all’epoca era il capo del servizio di sicurezza Shin Bet.

Il 29 marzo 2002 l’esercito israeliano (IDF) lanciò l’operazione Scudo Difensivo, per conquistare le città palestinesi della Cisgiordania. Il primo mese della primavera sarebbe stato ricordato in Israele come “il marzo nero”: 110 tra civili e soldati furono uccisi in attacchi terroristici, per lo più in attentati suicidi.

Il parlamentare Benjamin Ben-Eliezer a una riunione di corrente del Labor. Maggio 2014. Emil Salman

Quando l’esercito riprese il controllo di Ramallah, Marwan Barghouti, membro del parlamento palestinese, segretario generale di Fatah e capo dei miliziani Tanzim –il “capo di stato maggiore dell’intifada,” secondo gli Israeliani– scomparve come se la terra lo avesse inghiottito. “Ci dissero una cosa che avevamo sentito raramente, cioè che l’ordine di catturarlo era una direttiva del primo ministro Ariel Sharon,” ha raccontato ad Haaretz il capitano A. dell’unità segreta Duvdevan.

Intercettazioni telefoniche rivelarono che Barghouti si nascondeva in un rifugio sicuro. Il Generale di Brigata Ilan Paz, che all’epoca comandava la Brigata Ramallah dell’esercito, ha raccontato ad Haaretz: “Quando il servizio informazioni capì che si trovava nella casa di un quartiere di Ramallah, le forze di una brigata corazzata circondarono il sito e il testimone fu passato a me. Io comandavo l’unità Duvdevan. Abbiamo capito che lui era dentro la casa, perché uno dei soldati l’ha visto attraverso la finestra mentre si nascondeva vicino a quella che, almeno a noi, sembrava una donna anziana distesa su un letto. Abbiamo evacuato tutti quelli che erano nell’edificio. Ho chiamato il comandante della divisione, Yitzhak Gershon, e gli ho detto che, se fossi stato al posto suo, ci avrei ripensato.”

Marwan Barghouti. Illustrazione. Durar Bacri

“Mettere in carcere un leader politico non è una cosa di poco conto,” ha continuato Paz. “Alla fin dei conti, non aveva ucciso nessuno con le sue mani. Mi chiedevo che bisogno c’era di fare quell’operazione, che poteva finire con l’uccisione di Barghouti. Ma la risposta che ho avuto è stata: ‘Andiamo avanti.’ In casi di questo tipo, si mette in atto la procedura della ‘pentola a pressione’. Si lascia sbollire gradualmente l’evento per non mettere a rischio la vita dei soldati, finché non ci sono armi anticarro piazzate contro la casa o non sono stati messi in campo i bulldozer. In questo caso l’azione si concluse quando andammo, armati e con i cani, alla porta della casa in cui si nascondeva. Lui uscì fuori, con un aria spaventata.”

Gershon, il comandante della divisione, prese Barghouti per mano e lo portò fuori dall’appartamento. “Lo misi nell’auto del comando,” ha raccontato Gershon ad Haaretz. “Tirai fuori la mia borraccia e gli detti dell’acqua. Lui sembrava come fuori di testa. Molto impaurito. Gli dissi: Non ti preoccupare. Non ti faremo quello che tu avresti fatto a noi.”

Gershon ha aggiunto: “Secondo me, a questo punto dovrebbe essere rilasciato senza condizioni. E non come un nostro collaboratore, ma come qualcuno che si occuperà del futuro del popolo palestinese, ammesso che ci sia anche una piccola probabilità che lui diventi un leader dall’altra parte. Dico questo anche se so che nelle sue mani c’è del sangue, da quando era un leader dei Tanzim nella seconda intifada. Si fa pace con i nemici potenti il cui onore non sia stato calpestato.”

Il mito crescerà

Ehud Barak parla alla Conferenza di Herzliya, 16 giugno 2016. Ofer Vaknin

Gli ufficiali dell’esercito che catturarono Barghouti sono convinti che ora dovrebbe essere lasciato libero. Anche Ehud Barak era della stessa opinione. Poco dopo che Barghouti era stato preso per essere interrogato dallo Shin Bet, Barak –che sarebbe diventato primo ministro al tempo della seconda intifada, ma che all’epoca era un semplice cittadino– parlò col capo di Stato Maggiore Mofaz. “Avete perso la testa? Cos’è questa storia di Barghouti?” chiese retoricamente Barak. “Se fa parte della vostra lotta contro il terrorismo, è una cosa insensata. Ma se fa parte di un grande piano per fare di lui un futuro leader nazionale dei Palestinesi, allora è un’idea geniale, perché l’unica cosa che manca nel suo curriculum è una diretta affiliazione al terrorismo. Lotterà per la leadership dall’interno della prigione, e non dovrà dimostrare niente. Il mito crescerà gradualmente da solo.”

Il primo ministro Sharon, che aveva dato l’ordine di uccidere o arrestare Barghouti, era d’accordo a liberarlo per un altro motivo, cioè per usarlo in un potenziale scambio con gli Americani per il rilascio della spia Jonathan Pollard. Ma la cosa non funzionò. Yuval Diskin, vice-capo dello Shin Bet durante l’intifada, nel corso di conversazioni private, ha detto che la liberazione di Barghouti era senz’altro possibile come una mossa nel quadro di negoziati con i Palestinesi. (Diskin non ha risposto a una domanda di Haaretz su questo argomento).

Ariel Sharon. Haaretz

Al contrario, l’ex-ministro della difesa Moshe Ya’alon, che era vice-Capo di Stato Maggiore al tempo della cattura di Barghouti, crede che il suo posto deve rimanere la prigione. Questa opinione è condivisa da Avi Dichter, che era a capo dell’organizzazione-ombra che fornì l’informazione sul nascondiglio di Barghouti. “Quando ero a capo dello Shin Bet,” dice, “ci furono ministri del governo Sharon che cercarono di far pressione su di me perché mi pronunciassi a favore del suo rilascio. Dissi loro di non seccarmi. Un personaggio politico israeliano molto importante me lo descrisse come un ‘Mandela.’ L’ex leader del Meretz, Haim Oron, vedeva in lui il futuro della nazione palestinese. Dissi a tutti loro che Barghouti si era comprato la sua leadership con il sangue degli Ebrei.”

La dirigenza civile e militare israeliana che aveva a che fare con la seconda intifada era quindi divisa sulla difficile questione se si dovesse rilasciare Barghouti o meno. Ma tutta questa storia è solo un’anteprima del dramma che potrebbe succedere quando l’attuale presidente palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), si dimetterà. Malato, stanco e in posizione disastrosa nei sondaggi (il 65% dei Palestinesi vuole che se ne vada), Abbas potrebbe annunciare presto le sue dimissioni. “Non ha sostegno,” dice Yossi Beilin, che nel 1995 aveva compilato insieme ad Abbas una bozza di accordo di pace [con Israele]. “Abbas funziona nel modo che conosciamo in altri regimi: con editti presidenziali, forze di sicurezza fedeli e una significativa riduzione dei diritti umani. Il suo è un regime debole e quindi i motivi del suo abbandono non sono necessariamente legati alle sue condizioni di salute.”

Intanto Barghouti ha già annunciato che se Abbas si dimette e si indicono le elezioni presidenziali, lui farà la sua campagna dalla cella della prigione di Hadarim, vicino ad Haifa, dove sta scontando cinque ergastoli.

“Barghouti si piazza di gran lunga più avanti dei suoi rivali in tutti i sondaggi di opinione fatti negli ultimi anni,” ha detto ad Haaretz il dott. Khalil Shkaki, direttore del Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca di Ramallah. Nell’ultimo sondaggio del Centro, realizzato questo mese con 1200 interviste in Cisgiordania e a Gaza, il sostegno a Barghouti si attestava al 40%, contro il 20% per Abbas e il 35% per Ismail Haniyeh, personaggio di punta di Hamas.

In un sondaggio del marzo scorso, in cui si ipotizzava lo scenario di una competizione tra Barghouti e Haniyeh, il primo ha riportato il 57% delle preferenze e il secondo il 39%. Lo stesso sondaggio ha riscontrato che, in una competizione tra Haniyeh e Abbas, il leader di Gaza vincerebbe facilmente col 52% contro il 41%.

Secondo Shkaki, bisogna tener presente che la maggioranza dei Palestinesi non crede che ci sarà tanto presto un’elezione. Tuttavia, dice, se la presidenza di Abbas all’improvviso finisse, Fatah e le istituzioni dell’OLP dovrebbero prendere immediatamente dei provvedimenti per arrivare all’elezione di un successore. “Non c’è alcun dubbio che Marwan Barghouti parte da una posizione di vantaggio rispetto a qualunque altro candidato,” conclude Shkaki.

Nonviolenza di massa

Anche se dovesse svegliarsi ogni mattina con l’appello dei prigionieri per il resto della sua vita, Barghouti appare oggi quello che rappresenta una completa alternativa concettuale ad Abbas per quanto riguarda le questioni di fondo: riconciliazione con Hamas, immediata cessazione della cooperazione con Israele in tema di sicurezza, sostegno all’Autorità Palestinese per una protesta di massa nonviolenta contro Israele e boicottaggio dei prodotti israeliani. Barghouti pensa che “l’intifada dei coltelli” sia un errore fatale. In una conversazione avvenuta tramite un intermediario che lo ha visitato in prigione lo scorso giugno, ha detto ad Haaretz che una protesta popolare dovrebbe coinvolgere centinaia di migliaia di persone di tutti i gruppi palestinesi, compreso Hamas e la Jihad Islamica. La protesta deve essere costante e sistematica, per poter creare una pressione internazionale su Israele, tale da farla tornare al tavolo dei negoziati e porre fine all’occupazione.

Un uomo palestinese e un bambino, tutti e due con una bandana che porta l’immagine di Marwan Barghouti, durante una protesta nella città cisgiordana di Ramallah, giovedì 29 maggio 2004. Muhammed Nasser, AP

“Il popolo palestinese è pronto per una lotta, ma ha bisogno di qualcuno che lo guidi,” ha detto Barghouti al suo interlocutore. “Io sostengo ancora inequivocabilmente l’idea di due stati per due popoli. Oggi l’Autorità Palestinese (AP) può andare in due direzioni: o servire come uno strumento per liberarsi dall’occupazione, o essere uno strumento per avallare l’occupazione. Il mio compito è quello di restituire l’AP al suo ruolo di strumento per la liberazione nazionale.”

Barghouti riceve regolarmente visite da membri arabi della Knesset, alcuni dei quali vedono in lui un futuro leader. “È sostenuto dall’86% dei Palestinesi,” dice il parlamentare Ayman Odeh, capo della Lista Unita dei partiti arabi. Odeh ha recentemente portato a Barghouti l’imponente biografia di Nelson Mandela del 1999, scritta dal giornalista e autore inglese Anthony Sampson.

Il parlamentare Jamal Zahalka, presidente del partito Balad, una corrente della Lista Unita, ha visitato Barghouti la settimana scorsa e racconta che quest’ultimo giudica come un modello da imitare il fatto che gli Arabi si siano presentati uniti alle ultime elezioni per la Knesset, “perché anche lui aspira a riunire Fatah e Hamas in una protesta rivoluzionaria nonviolenta. Barghouti è il miglior candidato alla presidenza. Ad esempio, ha una visione del mondo del tutto illuminata per quanto riguarda i diritti delle donne,” nota Zahalka.

Elias Sabbagh, intimo amico e avvocato di Barghouti, va a trovarlo ogni settimana. La settimana scorsa si sono incontrati nel carcere di Gilboa, dove Barghouti è stato improvvisamente trasferito perché le autorità del carcere di Hadarim hanno ricevuto “informazioni dai servizi segreti su una progettata violazione disciplinare,” secondo una fonte del Servizio Prigioni di Israele.

“Per Barghouti, la lotta nonviolenta è uno strumento e non una meta,” spiega Sabbagh, “finché si continua a costruire colonie e a giudaizzare Gerusalemme. Mi ha detto che negoziati sono possibili se Israele si mostra disposta a metter fine all’occupazione e a tornare ai confini del 1967 nel giro di un anno.”

Ma Barghouti è pessimista sul fatto che ciò possa avvenire in un prossimo futuro. “Non è ancora comparso in Israele un de Gaulle o un de Klerk,” ha osservato dalla sua cella.

Un documento in possesso di Haaretz, redatto dal dipartimento informazioni del Servizio Prigioni di Israele, afferma che Barghouti “ha iniziato, insegnato e istituzionalizzato l’idea di studi accademici clandestini per prigionieri in massima sicurezza, ingaggiando università arabe in questo progetto. Il prigioniero è in continuo contatto con esponenti politici di Fatah che stanno all’esterno, usando vari mezzi, tra cui visite di avvocati, che sono un canale per ricevere e trasmettere messaggi di cui è il coordinatore. Il prigioniero è stato coinvolto nell’organizzazione e nel coordinamento di proteste attive e violente contro il Sevizio Prigioni, di scioperi della fame collettivi … Questo prigioniero ha una posizione di rispetto all’interno e all’esterno della struttura carceraria, si è auto-proclamato come un possibile candidato alla leadership di Fatah e come tale è oggetto dell’attenzione di personalità politiche all’interno e all’esterno di Israele.”

 

  1. RAMALLAH, 2016

“L’idea è quella di mobilitare centinaia di migliaia di persone per marciare verso Gerusalemme,” ci dice l’ex ministro dell’Autorità Palestinese (AP) Qadura Fares, mentre spegne un’altra sigaretta Rothmans. Fares è considerato uno stretto collaboratore di Barghouti, il suo rappresentante esterno. Anche lui conosce bene le carceri israeliane, avendoci trascorso 15 anni per la sua appartenenza ad una formazione armata di Fatah. Fu rilasciato all’indomani degli accordi di Oslo. Il giornalista Avi Issacharoff ha rivelato recentemente l’esistenza di un’intesa raggiunta all’inizio dell’anno tra Fares e autorevoli esponenti di Fatah vicini a Barghouti, da una parte, e Hamas dall’altra, riguardo a un rinnovamento della lotta palestinese nello spirito di Martin Luther King, Jr. e del Mahatma Gandhi.

“Un’altra idea è che decine di migliaia di persone si siedano sulle bypass roads [strade riservate ai coloni] della Cisgiordania dall’alba al tramonto,” dice Fares. “E se, mettiamo il caso, un colono cadesse nelle mani delle masse? Non ci sarebbe nessun bisogno di fargli del male, gli si direbbe soltanto: ‘Lascia questo posto.’ Sto parlando di una rivolta popolare ad alta intensità che metta sottosopra la vita dei coloni. Voglio giocare a scacchi con i miei amici? Ci sediamo sulla strada. Qualcuno deve fare un matrimonio? Lo si fa su una bypass road.”

Non siete mai riusciti a fare una lotta nonviolenta, anzi avete finito per fare attacchi suicidi.

Fares: “Va bene. Ci vorrà qualche mese di formazione e di preparazione. Ma ti posso anticipare che tutti quelli con cui ho parlato negli alti ranghi di Hamas sono d’accordo sull’idea di una protesta popolare nonviolenta di alta intensità.”

Una foto nell’ufficio di Fares mostra Barghouti, in tenuta da carcerato, che stringe calorosamente le mani di un giovane prigioniero che si chiama Thaer Hamed, mentre tutti e due ostentano sorrisi di vittoria. Eccoli qua, i due simboli della seconda intifada.

Il 3 marzo 2002, alle 6 del mattino, Hamed era appostato su una collina che domina un posto di blocco dell’esercito a Wadi Haramiya, tra Ramallah e Nablus. Armato di un vecchio fucile Mauser, sparò e uccise sette soldati e tre civili, prima di fuggire e diventare un eroe popolare nei Territori. Nacquero leggende sull’identità del misterioso cecchino, che fu arrestato solo due anni dopo. “Per me, lui è un eroe, come tutti i prigionieri palestinesi,” ci dice Fares. “Ha ucciso dei soldati che causavano sofferenze e umiliazioni a decine di migliaia di Palestinesi, e li ha sbaragliati con un solo fucile fuori moda.”

Come risolvi la contraddizione tra ammirare il cecchino e sostenere una protesta nonviolenta? Dobbiamo dedurre che secondo te la seconda intifada fu un errore?

Fares: “Nel corso della nostra storia, abbiamo combattuto assai più con il nostro sangue che con la nostra testa.”

La lotta internazionale

Fadwa Barghouti. Daniel Bar-On

L’avvocato Fadwa Barghouti, moglie del prigioniero, ha un ufficio al sesto piano di uno scintillante edificio nel centro di Ramallah. Alle pareti ci sono foto del marito carcerato e dipinti fatti da lui stesso. Da quando Barghouti è in carcere, Fadwa gestisce una fondazione finanziata dall’Autorità Palestinese che ha lo scopo di creare pressione internazionale per ottenere il suo rilascio, e più in generale per alimentare il suo mito, che ha molte somiglianze con l’aura che si formò in Sud Africa intorno a Mandela. Lei viaggia molto, per incontrare ministri stranieri e persone che influenzano la pubblica opinione.

La campagna per la liberazione di Barghouti fu lanciata nel 2013 dalla cella di Nelson Mandela a Robben Island, in Sud Africa, dove erano stati imprigionati molti leader della lotta anti-apartheid. In quell’occasione, stretto nella piccola cella insieme a Fadwa Barghouti, c’era Ahmed Kathrada, un altro combattente contro il regime razzista, anche lui reduce da un lungo periodo di carcerazione.

La dichiarazione di Robben Island che chiede la liberazione di Barghouti è stata firmata da otto vincitori del Premio Nobel per la Pace, tra cui l’ex presidente USA Jimmy Carter e Desmond Tutu, anche lui un veterano della campagna del Sud Africa. Quest’anno poi, Tutu ha inviato una lettera al comitato per il Premio Nobel, sollecitandolo ad assegnare a Barghouti il Premio per la Pace. Anche Adolfo Perez Esquivel, l’attivista argentino per i diritti umani che vinse quello stesso premio nel 1980, insieme ad alcuni membri del parlamento belga, hanno proposto che il premio sia dato all’uomo che sta ora scontando cinque sentenze di ergastolo in Israele dopo una condanna per omicidio, mettendo in risalto il suo impegno per la democrazia, i diritti umani e l’uguaglianza tra uomini e donne.

Nei primi anni di prigionia, il marito di Fadwa era in isolamento e a lei non era permesso vederlo, eccetto per una drammatica visita che fu autorizzata dall’ufficio del primo ministro Sharon [vedi dopo]. Negli ultimi anni, le sono state concesse due visite di 45 minuti al mese. Le telefonate sono proibite. Gli porta i libri che lui chiede (può portare un libro al mese). Oltre ad essere un avido lettore di libri (secondo i suoi confidenti, 8-10 al mese, tra cui la recente biografia di Sharon di David Landau), Barghouti è abbonato all’edizione inglese di Haaretz, guarda religiosamente il programma di attualità “London and Kirschenbaum” e i notiziari israeliani, fa ginnastica nel piccolo cortile e fa conferenze ai prigionieri.

Marwan Barghouti è nato nel 1959 a Kobar, un piccolo villaggio vicino a Ramallah. Fu arrestato per la prima volta a 15 anni, per aver partecipato a dimostrazioni contro l’occupazione. Nel 1978, a 19 anni, fu processato e condannato a cinque anni in una prigione israeliana, per la sua appartenenza alle unità di Fatah. Durante gli anni di carcere completò i suoi studi di scuola superiore. Dopo essere stato scarcerato sposò Fadwa, una lontana parente; il loro matrimonio fu rimandato più volte a causa dei frequenti interrogatori e arresti di Barghouti. “Non mi era accanto in nessuna delle nascite dei miei quattro figli,” racconta Fadwa Barghouti. Al loro primogenito dettero il nome di Qassam, in ricordo di Iz al-Din al-Qassam, un pioniere della lotta nazionale palestinese.

Barghouti ha studiato scienze politiche all’Università Bir Zeit in Cisgiordania dove fu eletto presidente dell’associazione studentesca. “In quegli anni viveva tra interrogatori e arresti, una vita clandestina,” dice la moglie. “L’università era il centro del fermento nazionale palestinese.”

Nel maggio 1987, Barghouti fu espulso in Giordania. La sua deportazione, insieme a quella di alcuni leader universitari, voleva essere una “mossa preventiva” da parte di Israele per contenere le agitazioni. Tuttavia, sette mesi dopo l’ondata di arresti, scoppiò la prima intifada, sorprendendo lo Shin Bet e i servizi segreti israeliani, oltre che Yasser Arafat e la dirigenza dell’OLP a Tunisi. Fadwa Barghouti raggiunse il marito, dopo di che la famiglia cominciò ad andare avanti e indietro tra Tunisi e la Giordania. A detta di un ex alto funzionario dello Shin Bet, durante l’intifada ci fu almeno un caso in cui l’uccisione di un colono vide un coinvolgimento da parte di Barghouti, che all’epoca si trovava in Giordania.

Nel 1994, dopo la firma degli Accordi di Oslo e l’insediamento dei vertici dell’OLP nella Striscia di Gaza, Israele permise a Barghouti di tornare.

“Contrariamente all’opinione di altri, lui credeva davvero che Oslo avrebbe rappresentato un periodo di cinque anni dopo i quali lo stato palestinese sarebbe stato istituito,” ricorda Fadwa Barghouti. “Ma l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin produsse un danno enorme a tutto il processo. Dopo l’ascesa al potere di Benjamin Netanyahu, Barghouti capì che il processo di pace non si sarebbe realizzato. Contrariamente alla vostra descrizione, l’offerta di Barak a Camp David non era generosa. La crescita degli insediamenti e la costruzione delle bypass road ci dimostrò che voi [Israeliani] non avevate alcun interesse a raggiungere un accordo.

“La generazione mia e di Marwan conserva ancora una scintilla di speranza che il conflitto finirà con una soluzione a due stati,” aggiunge.” I miei figli non ci credono e aspirano a un singolo stato democratico.”

Nel periodo tra Oslo e la seconda intifada, Barghouti costruì un’estesa rete di relazioni sociali con politici israeliani. All’epoca, uno dei più intimi amici di Barghouti era Haim Ramon, un ex ministro del governo.

“Ci vedevamo ogni settimana, di solito il venerdì a Tel Aviv,” ricorda Ramon. “Lui era uno dei personaggi più moderati dell’Autorità Palestinese (PA). Mi disse allora che era possibile raggiungere un accordo, anche sulla questione dei rifugiati. Nelle nostre conversazioni, diceva che era chiaro che nessun rifugiato sarebbe ritornato in Israele, eccetto quelli nei campi libanesi, che a suo dire erano i più disgraziati di tutti. Aveva un odio patologico verso i coloni. Durante la seconda intifada si dette al terrorismo. Dopo che fu imprigionato, ricevetti un suo messaggio del tipo ‘Ma perché Ramon non viene a farmi visita?’

Haim Ramon. Olivier Fitoussi

“Non c’è dubbio che sarà lui il prossimo presidente palestinese,” continua Ramon. “Lui rappresenta il consenso. Ed è molto accettato da Hamas. Quando la cosa succederà, verrà esercitata una forte pressione internazionale su Israele, che sarà costretto a liberarlo.”

Nel 1996 si tennero le prime elezioni per il parlamento palestinese, il Consiglio Legislativo. “In quella circostanza, Barghouti diffuse volantini che erano favorevoli al processo politico in atto, a Oslo e a un accordo, ma quello è stato un caso anomalo e unico,” dice il dott. Matti Steinberg, un esperto di politica palestinese e consigliere di quattro direttori dello Shin Bet. “La vita di Barghouti rappresenta la speranza e poi la delusione per un accordo politico con Israele. Prevedo che ci sarà una crisi all’indomani dell’uscita di scena di Abu Mazen, dopo di che si farà appello al salvatore che sta in prigione. È del tutto possibile che assisteremo a un’evoluzione simile a ciò che avvenne in Sud Africa: un leader palestinese in prigione. Questa è una situazione molto pericolosa, che porterà a pressioni internazionali per la sua liberazione.”

Negli anni in cui flirtava con la sinistra sionista, Barghouti ha fatto alcune dichiarazioni che hanno incrinato la sua immagine di controparte ideale, e hanno forse presagito il futuro. Per esempio, ha suggerito al parlamento palestinese di mandare le condoglianze alla famiglia di un terrorista che si fece esplodere nel 1997 al Caffè Apropos di Tel Aviv. In un altro caso, ha definito shahid –cioè martire per la causa– il bombarolo Yahya Ayyash di Gaza, noto come ‘l’ingegnere’. “È una discussione interna tra Palestinesi,” spiegò Barghouti agli Israeliani che si sentivano ingannati da lui. In quegli anni fondò il Tanzim, un’organizzazione politica che rifletteva l’atteggiamento della popolazione locale rispetto ai personaggi ben vestiti e col sigaro in bocca che arrivavano da Tunisi.

“Il gruppo di Tunisi ci considerava dei soldati, mentre Marwan voleva che ci vedessero come dei partner,” dice Qadura Fares a proposito della faida interna con Fatah. “Lui era stato deportato e conosceva tutti e due i mondi: sapeva quindi direttamente la differenza enorme che c’era tra il livello di vita della dirigenza a Tunisi e la povertà nei Territori. Combatteva per l’uguaglianza e la democratizzazione. Lavorava per integrare gente dei Territori all’interno dell’apparato dell’Autorità Palestinese.”

Barghouti era contro i meccanismi per la sicurezza creati da Arafat e accusò pubblicamente i loro capi di essere dei criminali e dei corrotti.

“Il suo ufficio a Ramallah era in un edificio di abitazione, con i bambini che facevano la pipì per le scale. Aveva scelto questa ambientazione per sottolineare il fatto che lui veniva da gente comune,” dice il giornalista Danny Rubinstein, che era uno degli amici intimi di Barghouti. “Il Tanzim era una milizia civile fedele a lui, e lui era il maggior oppositore del gruppo di Tunisi. Questo era il suo biglietto da visita ed era fatto apposta per portarlo alla leadership dopo Arafat. Era del tutto favorevole ad un accordo. Lo incontrai due giorni prima che si desse alla latitanza e cominciasse la caccia per trovarlo. Eravamo nella lobby del Park Hotel a Ramallah e mi disse che quel posto poteva saltare in aria: temeva infatti che stessero per liquidarlo.”

Nel 2000, all’indomani della conferenza di Camp David, Barghouti dichiarò: “Arafat non ha il diritto di rinunciare al diritto al ritorno dei rifugiati.” La conferenza finì in un insuccesso, con Ehud Barak che dichiarava che non c’era “nessuna controparte” per la pace. Due mesi dopo, il 28 settembre 2000, Ariel Sharon, membro della Knesset e leader dell’opposizione, faceva la sua passeggiata alla spianata delle moschee. Scoppiarono disordini in tutti i Territori. L’esercito israeliano, che nei mesi precedenti Camp David si era esercitato in vista di una guerra scatenata dai Palestinesi, reagì in modo violento.

Marwan Barghouti nel suo ufficio di Ramallah nel 2000. AFP

“All’inizio, la proporzione dei morti era di 15:1 ai danni dei Palestinesi,” notava l’ex-direttore dello Shin Bet, Diskin, in un’intervista al programma “The Source” di Canale 10, che si occupava delle conseguenze della seconda intifada. Diskin dissentiva quindi dall’affermazione dell’esercito israeliano (IDF) secondo il quale i Palestinesi avevano pianificato una guerra.

Ma i due maggiori ufficiali dell’IDF del momento, Mofaz e Ya’alon, avanzarono un’interpretazione che suggeriva proprio questo, cioè che la cosiddetta intifada di Al-Aqsa era stata pianificata già da tempo e che la passeggiata di Sharon alla spianata delle moschee era stata tirata in ballo solo come una scusa. Alcuni mesi prima, Barghouti era stato sconfitto da Hussein a-Sheikh alle elezioni per il ruolo di segretario generale di Fatah. Ma Arafat ignorò i risultati. Ya’alon era convinto che questa era un’astuta mossa voluta da Arafat, che aveva designato Barghouti –considerato una figura militante carismatica– a guidare l’intifada. Il vice-capo di stato maggiore vide un chiaro presagio degli avvenimenti futuri negli eventi del 2000 a ricordo della Nakba (cioè quella che per i Palestinesi fu “la catastrofe” della fondazione di Israele nel 1948), che furono capeggiati da Barghouti, pochi mesi prima del vertice di Camp David. Durante la commemorazione della Nakba, nel corso di dimostrazioni che durarono tre giorni, pietre e bottiglie Molotov furono tirate contro i soldati. Otto Palestinesi morirono negli scontri a fuoco che ci furono tra i soldati israeliani e i miliziani di Tanzim. A tutt’oggi, Ya’alon è convinto che questo fu il principale evento promozionale, e che Barghouti divenne allora, e ancora di più durante l’intifada, “l’alter-ego di Arafat”.

Braccio destro di Arafat

Il giorno prima della passeggiata di Sharon alla spianata delle Moschee, con la conseguente esplosione di disordini nei Territori, Carmi Gillon, un ex-direttore dello Shin Bet che era allora il capo del Centro Peres per la Pace, si incontrò con Barghouti nella lobby dell’hotel Hyatt di Gerusalemme per pianificare progetti congiunti per giovani israeliani e palestinesi.

“Non aveva l’aspetto di uno che passava la notte a pianificare l’intifada e il giorno a intraprendere progetti di pace,” ricorda Gillon. La mia impressione fu che lui era a favore di un accordo. Lo scoppio dell’intifada sorprese lui, così come sorprese Arafat. E poi cavalcò la tigre. Barghouti capì che se prendeva la strada del sostegno a un accordo, questo non lo avrebbe aiutato a diventare un leader. Non c’è dubbio che è molto amato dalla gente ed è un serio candidato per la presidenza. All’epoca avevamo un chiaro interesse a rilasciarlo. Ora non ci sarebbe motivo per liberarlo poiché non si sta certo andando verso un accordo.”

È della stessa opinione un altro ex-capo dello Shin Bet, Ami Ayalon: “Nella prima settimana dell’intifada, Barghouti e i suoi furono sorpresi come chiunque altro. L’analisi dello Shin Bet colse nel segno: era una rivolta popolare. E poi lui [Barghouti] cominciò a modellare la logica operativa e politica della seconda intifada. Divenne il braccio destro di Arafat e credette che l’intifada fosse il modo per raggiungere l’obiettivo dei due stati per due popoli. Quando ero ministro nel governo di Ehud Olmert, durante i negoziati per il rilascio [del soldato Gilad] Shalit, dissi [al primo ministro] che dovevamo rilasciare quanti più prigionieri possibile di quelli che erano utili a Fatah, primo fra tutti Barghouti. Ma Olmert non era il tipo adatto per ascoltare idee di questo genere.”

All’inizio della seconda intifada, Barghouti capeggiò dimostrazioni di massa. Quando il confronto divenne più aspro, dichiarò: “È finito il tempo in cui solo noi mandavamo al sacrificio le nostre vittime. Dobbiamo vendicarci. Dobbiamo uccidere gli Israeliani. Sì. Abbiamo le pallottole, abbiamo i fucili, e li punteremo contro gli occupanti.”

Era allora considerato il leader della corrente militante. A quel tempo, alcuni alti esponenti dell’esercito israeliano dicevano che aveva oscurato Arafat col suo potere e la sua influenza e che il Tanzim che lui guidava era armato, in violazione degli accordi di Oslo. “Non lo potresti mandare qualche settimana in Alaska a raffreddarsi un poco?” suggerì ad Arafat il ministro degli esteri Shimon Peres durante un incontro.

In seguito, lo Shin Bet ricevette informazioni secondo cui Barghouti –tramite suoi fedeli nel Tanzim e nelle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa– forniva denaro e armi che venivano usati in attacchi terroristici nei Territori contro soldati e coloni. Un monaco greco fu ucciso perché gli assassini lo avevano scambiato per qualcun altro.

“La seconda intifada iniziò come una lotta popolare e l’esercito di Israele la annegò nel sangue,” ci dice Qadura Fares nel suo ufficio di Ramallah. Abbiamo assistito a funerali in cui la gente chiedeva a Barghouti di fare vendetta. Marwan, un leader che aveva forti legami con la gente comune, non poteva ignorare queste richieste, diversamente da quanto facevano i membri del Comitato Centrale [di Fatah, come ad esempio Abbas]. Capì che era nato un serio competitore di Fatah e che questo era Hamas. Marwan voleva mantenere forte Fatah. Era coordinato al 100% con Arafat durante la seconda intifada, ma questo non vuol dire che passassero la notte a pianificare tutti i dettagli. Barghouti capiva quello che voleva Arafat, dai suoi gesti e dal suo linguaggio corporeo. Se Arafat avesse voluto che le sparatorie cessassero, sarebbero cessate.”

Il momento forse più caldo della seconda intifada venne nel gennaio 2002. L’inviato americano Gen. Anthony Zinni era arrivato in Israele da qualche settimana e stava trattando un cessate il fuoco, ma la trattativa si interruppe quando l’esercito israeliano assassinò Raad al-Karmi, del gruppo Tanzim, per mezzo di una bomba. Karmi, che aveva compiuto dozzine di attacchi terroristici contro Israeliani, fu colpito mentre stava andando dalla sua amante. L’assassinio, che provocò un acceso dibattito all’interno dell’establishment militare israeliano, portò al Marzo Nero e all’operazione Scudo Difensivo in aprile. Barghouti che era stato il protettore di Karmi, chiese vendetta. Alcuni attacchi del Tanzim furono compiuti all’interno della linea verde, tra cui l’uccisione di tre persone al ristorante del mercato del pesce di Tel Aviv. Barghouti avrebbe poi sostenuto di aver dato istruzioni di fare attacchi solo in Cisgiordania.

Fu a questo punto che si decise di aumentare l’impegno per arrestare o assassinare il ricercato palestinese numero uno.

Dopo il suo arresto, Barghouti fu sottoposto a serrati interrogatori da parte degli agenti dello Shin Bet “Mofaz” e “Smith”. I rapporti che essi scrissero per riassumere la conversazione con Barghouti rappresentano la sua narrativa sulle origini della seconda intifada.

“Doveva avere un carattere popolare, e io sono stato uno dei suoi promotori,” ammise. “Ma le cose hanno preso una piega non più controllabile.” La passeggiata di Sharon alla spianata delle moschee fu solo la goccia che fece traboccare il vaso,” insistette, e passò a elencare i fattori che indussero i Palestinesi a fomentare i disordini: “Espansione delle colonie, perdita di speranza dopo il fallimento di Camp David, perdita di speranza per l’indipendenza e fallimento di Arafat nel realizzarla, corruzione dell’Autorità Palestinese, problema dei rifugiati.”

Durante gli interrogatori, Barghouti ammise che il suo coinvolgimento nelle violenze era in parte dovuto alla lotta per il potere nelle strade palestinesi. “per cacciare Hamas e la Jihad Islamica,” e alle lotte intergenerazionali per il controllo della leadership di Fatah.

Il leader palestinese Yasser Arafat regge un poster di Marwan Barghouti, leader recluso del movimento Fatah della Cisgiordania, durante una cerimonia nel suo ufficio di Ramallah, 12 febbraio 2004. Jamal Aruri, AFP

Il leader palestinese Yasser Arafat regge un poster di Marwan Barghouti, leader recluso del movimento Fatah della Cisgiordania, durante una cerimonia nel suo ufficio di Ramallah, 12 febbraio 2004. Jamal Aruri, AFP

Da questo punto di vista, ebbe a dire, la violenza non era una mossa strategica, ma semplicemente tattica, intesa a far nascere lo stato palestinese. “La seconda intifada,” predisse, “sarà l’ultima fase di violenza, perché i Palestinesi sentono di aver ristabilito, con gli attacchi, la propria rispettabilità. Si è creato un bilanciamento tra le parti, come avvenne per Israele rispetto al presidente egiziano Anwar Sadat dopo la guerra dello Yom Kippur.”

Disse a chi lo interrogava che si assumeva piena responsabilità per gli attacchi di Fatah, ma non per quelli all’interno di Israele, ai quali invece era risolutamente contrario.

Nelle sue lunghe conversazioni con gli agenti dello Shin Bet, Barghouti si dimostrò un politico ambizioso e calcolatore. Aveva avuto la sua parte nel ciclo del sangue, raccontò, anche al fine “di poter dire in futuro di aver agito per la pace anche durante la guerra, mentre altri leader non si erano voluti sporcare le mani. In questo modo si sarebbe guadagnato la simpatia del popolo palestinese.”

Gli inquirenti annotano anche che “l’interrogato ha uno sviluppato senso dell’umore e ci ha regalato molte battute formidabili.” Ma probabilmente non si riferivano a questo suo commento: “Sarò presto rilasciato in uno scambio di prigionieri, come nell’accordo Jibril del 1985.”

Quattro mesi dopo il suo arresto, lo stato accusò Barghouti del coinvolgimento in altri 37 attacchi e atti terroristici. Il ministro della giustizia dell’epoca, Meir Sheetrit, suggerì che il processo, che avveniva in un tribunale civile, fosse mostrato in televisione “come il processo Eichmann” (che fu trasmesso in diretta radio). Barghouti rifiutò di difendersi o di convocare testimoni, sostenendo energicamente che non riconosceva a Israele il diritto di processarlo. Fu dichiarato colpevole di cinque assassinii e condannato a cinque ergastoli cumulativi, più altri 40 anni per tentato omicidio e per appartenenza a un’organizzazione terroristica.

Secondo i giudici, Barghouti aveva guidato squadre terroristiche del Tanzim e delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa, aveva fornito armi e finanziamenti ai comandanti, e in alcuni casi aveva approvato anticipatamente gli attacchi. Ami Ayalon dice: “Ho pensato che il suo processo sia stato molto problematico per Israele” e aggiunge: “Se credessi in teorie complottistiche, penserei che forse si trattava di una cospirazione israeliana volta a costruire un leader che crede nella soluzione dei due stati. Ma ho avuto un professore a Harvard che diceva che le teorie della cospirazione dovrebbero essere sempre lasciate alla fine, come ultima risorsa. La maggior parte di ciò che vediamo è casuale o banale.”

Beilin concorda sul fatto che “il processo fu un errore,” facendo notare che “anche il presidente della corte, Sara Sirota, pensava che fosse sbagliato. Il processo lo ha trasformato in un Mandela e Barghouti non è Mandela. È un gatto randagio che è in buona parte responsabile della seconda intifada. Pensava di poter controllare le fiamme, ma nessuno ha mai controllato una qualsiasi fiamma.”

Il leader palestinese carcerato Marwan Barghouti in una comparizione in tribunale nel 2003. Moti Kimche

Il leader palestinese carcerato Marwan Barghouti
in una comparizione in tribunale nel 2003. Moti Kimche

Postmortem

Dopo la morte di Yasser Arafat, nel novembre 2004, Mahmoud Abbas, che si opponeva alla lotta armata seguita da Arafat e Barghouti, fu nominato suo successore temporaneo. Dalla sua cella di isolamento, Barghouti dichiarò che anche lui intendeva correre per la presidenza. Secondo informazioni giunte alle autorità israeliane, le due persone più vicine a Barghouti, sua moglie Fadwa e Qadura Fares, si sono opposte all’idea e l’hanno convinto a ritirarsi. Contrariamente al solito, l’ufficio del primo ministro concesse ai due il permesso di visitare Barghouti, che per due anni era stato in totale isolamento nel carcere di Be’er Sheva. “Sono andato a trovarlo dietro richiesta di Abu Mazen. Oggi riconosco che ho fatto un errore quando ho insistito che non si presentasse,” ammette Fares e ricorda così il loro dialogo:

Fares: Marwan, diciamo che il 10 gennaio del 2005 ci svegliamo al mattino e tu sei il presidente della Palestina. Che cosa potrai fare per noi? Sei in isolamento qui a Be’er Sheva.

Barghouti: E cosa farà Abu Mazen?

Fares: Non mi illudo che Abu Mazen riuscirà a fondare lo stato di Palestina. Ma può ricostruire la casa dopo che l’intifada l’ha distrutta, ricostruire le istituzioni, promuovere la democrazia e continuare il processo politico.

Barghouti: Ricordati, Qadura: gli israeliani non ci daranno niente. Non permetteranno di raggiungere niente.

Fares: Perché?

Barghouti: Quando un leader ha una sola opzione, non c’è alcun motivo per cui gli Israeliani gli diano qualcosa. E Abu Mazen potrà puntare solo sull’opzione diplomatica, sui negoziati. Abbiamo provato una lotta senza negoziati e negoziati senza lotta, e non abbiamo avuto successo. Solo negoziati con la lotta porteranno alla liberazione.

Nel 2004 Barghouti ha sostenuto il piano del governo israeliano per il ritiro dalla Striscia di Gaza. In seguito ha inviato una lettera dal carcere chiedendo ai Palestinesi di non reagire con la violenza quando Israele avrebbe evacuato i coloni di Gaza. Alla vigilia della drammatica mossa di Sharon, l’ambasciatore a Washington, Danny Ayalon, provò a mettere in campo un’iniziativa israeliana che colpisce l’immaginazione.

Ayalon ricorda: “Prima del disimpegno [da Gaza] ebbi da Sharon il tacito consenso per questa mossa: il rilascio di Barghouti in cambio del rilascio di Pollard [spia israeliana in carcere negli USA]. A questo scopo ebbi un incontro col Segretario di Stato Condoleezza Rice. Sapevo che gli Americani erano favorevoli al rilascio di Barghouti, perché volevano rafforzare Fatah. Le chiesi: ‘Sareste disposti a rilasciare Pollard in uno scambio con Barghouti?’ La sua risposta fu: ‘Danny, non ci provare neanche.’”

L’iniziativa Barghouti-contro-Pollard andò a fondo come una pietra al tempo di Ariel Sharon. Barghouti fu messo al primo posto nella lista dei candidati alle elezioni legislative del gennaio 2006. Quando arrivarono i risultati, Abu Mazen fu costretto a nominare Ismail Haniyeh [di Hamas] come primo ministro. In mezzo a quelli che sembravano segni incipienti di una imminente guerra civile tra i Palestinesi, Barghouti elaborò un ambizioso documento per bloccare le correnti che se ne stavano andando. Iniziò un lungo dialogo con i detenuti in alta sicurezza dei vari gruppi palestinesi, tra cui Hamas e la Jihad Islamica. Il risultato fu il “documento dei prigionieri”.

Questo è un testo costruttivo che prevede la creazione di due stati uno accanto all’altro, sulla base dei confini precedenti al 1967, l’attuazione del diritto al ritorno e l’adozione dei precedenti accordi tra le parti, l’abbandono della lotta armata all’interno di Israele e l’introduzione della democrazia ed anche della parità di diritti per le donne.

Tuttavia, il 25 giugno 2006, il giorno in cui il primo ministro di Hamas, Haniyeh, doveva annunciare l’accettazione del documento a nome della sua organizzazione, i membri dell’ala militare di Hamas rapirono il caporale Gilad Shalit lungo il confine di Gaza. La cerimonia della firma fu sospesa. Sarebbero trascorsi altri cinque anni prima che Netanyahu, che divenne premier per la prima volta nel 2009, firmasse uno scambio di prigionieri per Shalit, ma senza l’inclusione di Barghouti. In precedenza, anche il governo Olmert lo aveva lasciato in carcere.

Haim Oron, l’ex leader di Meretz, riferisce che il ministro della Difesa Ehud Barak gli disse che considerava l’arresto di Barghouti un errore fondamentale. Nonostante ciò, il neanche il governo Olmert-Barak lo liberò.

Haim Oron. Tomer Appelbaum

Haim Oron. Tomer Appelbaum

Barghouti sostenne i negoziati condotti da Olmert. All’epoca disse che, se fosse dipeso da lui, avrebbe potuto firmare un accordo sullo status definitivo “entro pochi giorni”. Alcuni nell’establishment israeliano credettero che il sostegno di Barghouti per i negoziati fosse autentico. A riprova di ciò, hanno fatto notare che i più stretti confidenti di Barghouti, guidati da Fares, avevano firmato l’Iniziativa di Ginevra, uno schema non ufficiale di accordo, elaborato qualche anno prima da delegazioni di Israeliani e Palestinesi. “Non avrei firmato se fossi stato contrario,” ha detto Fares ad Haaretz.

Altri hanno sospettato che la moderazione di Barghouti nelle sue conversazioni dalla prigione avesse una motivazione personale: mirava ad un accordo che permettesse il suo rilascio, dopo di che avrebbe ripreso la sua linea militante. “So che Abu Mazen propose il rilascio di Marwan come condizione per un accordo” dice Fadwa Barghouti, “e più tardi anche il segretario di stato degli Stati Uniti, John Kerry fece la stessa cosa. Questo mi è stato detto personalmente”.

Altre fonti governative israeliane, tuttavia, sostengono che Abbas abbia sempre agito con doppiezza. “Sappiamo che di tanto in tanto ha interpellato gli Americani circa il rilascio di Barghouti, anche in un tête-à-tête con il presidente Obama,” dice una fonte ben informata. “Ma ci sono anche valutazioni secondo le quali, per paura della sua stessa sopravvivenza, Abu Mazen preferiva che Barghouti restasse in prigione.” Secondo il parlamentare Zahalka, “Ci sono stati anni in cui alla Muqata -il quartier generale palestinese a Ramallah- non volevano nemmeno sentire il suo nome.”

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas firma l’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici nella sede ONU di New York, 22 aprile 2016. Spencer Platt / Getty Images / AFP

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas firma l’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici
nella sede ONU di New York, 22 aprile 2016. Spencer Platt / Getty Images / AFP

“Nel corso degli anni, Abu Mazen non ha fatto fino in fondo lo sforzo necessario per il mio rilascio,” ha detto ad Haaretz lo stesso Barghouti.

Negli ultimi mesi, il ministro per gli Affari di Gerusalemme, Zeev Elkin, ha incontrato varie personalità accademiche per discutere la situazione che si creerà nel dopo-Abbas. La maggior parte dei suoi interlocutori gli ha detto che Barghouti è l’unica figura di Fatah che potrebbe sconfiggere Hamas in una elezione. Ma questo non ha portato Elkin ad unirsi al coro di quelli che sollecitano il suo rilascio.

“Il giorno dopo l’uscita di Abu Mazen, l’Autorità Palestinese (AP) crollerà, e dobbiamo essere pronti per questa evenienza”, dice Elkin ad Haaretz con toni apocalittici. “A mio avviso, Fatah non affronterà il rischio di un’ elezione, dove potrebbe perdere rispetto ad Hamas, e il governo Netanyahu non permetterà agli arabi di Gerusalemme Est di votare.” Elkin vede una probabile situazione di caos e di violenza nell’immediato periodo post-Abbas, e ritiene inoltre che Barghouti continuerà a marcire in carcere.

Secondo qualcuno, le tre cariche ricoperte da Abbas (presidente dell’OLP, presidente di Fatah, presidente dell’AP) saranno divise fra tre persone diverse. Il presidente dell’OLP sarà la figura senior e guiderà le mosse politiche, il presidente dell’AP sarà un tecnocrate che si occuperà di affari amministrativi, e la leadership di Fatah sarà presa da una terza persona scelta all’interno dell’organizzazione. E che cosa succederà se ci sarà un’elezione e Barghouti la vincerà? “Il gabinetto di sicurezza [di Israele] non ha ancora discusso la questione” dice ad Haaretz un ministro in carica.

Il presidente Reuven Rivlin, che oggi è contrario al rilascio di Barghouti, ha tenuto alcuni incontri con esponenti politici, nel corso dei quali è stata sollevata la questione di cosa dovrebbe fare Israele se Barghouti venisse eletto presidente. Rivlin ha detto, nel corso di quelle conversazioni, che i leader del paese dovrebbero, in tal caso, riconsiderare la situazione e fare ciò che meglio corrisponde agli interessi di Israele. Secondo Rivlin, se la comunità internazionale lo vede come una figura simile a Mandela e fa pressione per la sua liberazione, sarebbe contro l’interesse di Israele farlo rimanere in carcere.

Barghouti stesso ha recentemente detto ad uno dei suoi visitatori che egli si oppone decisamente al fatto che il successore di Abbas venga scelto con un’elezione nello stile degli stati arabi. “L’unico modo è un’elezione completamente democratica sotto la supervisione internazionale” ha detto il prigioniero. “Chi pensa che il prossimo presidente palestinese non sarà eletto dalle urne si illude.”

Gidi Weitz

Giornalista di Haaretz

http://www.haaretz.com/israel-news/1.728135

Traduzione di Donato Cioli e Lete Griziotti

Questo articolo può essere scaricato ed eventualmente stampato in pdf da qui: Traduz. Barghouti

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